Psicosomatica

XXIV Congresso:
Un’intervista su un problema molto importante su un argomento di grande attualità centrata su una modalità di trattamento riabilitativo volontario in ambito intra e post carcerario.

Intervista a Carla Maria Xella
a cura di Elisa Faretta

Carla Maria Xella, psicologa, psicodiagnosta e psicoterapeuta, supervisore e facilitatore EMDR, è responsabile del CIPM (Centro Italiano per la Promozione della Mediazione) per Roma e il Lazio e collabora con il progetto di trattamento per autori di reati sessuali attivo presso la Casa di Reclusione di Milano-Bollate e il Presidio Criminologico del Comune di Milano, gestiti dal CIPM, alla cui fondazione ha partecipato. Si occupa in particolare di conduzione di gruppi trattamentali, valutazione del rischio di recidiva e di trattamenti EMDR per autori di reato. E’ socia fondatrice dell’ARP (Associazione per la Ricerca in Psicologia clinica) e della SISST (Società italiana per lo Studio dello Stress Traumatico).
Collabora con l’associazione Ciao Lapo-Onlus per l’assistenza psicologica al lutto perinatale.

Il corpo amico – I gruppi a matrice espressiva nel trattamento degli autori di reati sessuali

Vorrei presentare Carla Maria Xella, che ha curato, insieme al criminologo Paolo Giulini, il libro “Buttare la chiave? La sfida del trattamento per autori di reati sessuali”, edito nel 2011 da Raffaello Cortina.

Questo libro, dal titolo volutamente provocatorio, illustra il primo programma di trattamento per autori di reati sessuali in atto in Italia, quello realizzato dal CIPM (Centro Italiano per la Promozione della Mediazione) nella casa di Reclusione di Milano-Bollate e sul territorio milanese. Per l’opinione pubblica e la subcultura carceraria, questi autori di reato sono solo “infami”, e “buttare la chiave”, in senso metaforico o letterale, dovrebbe essere l’unica forma di intervento nei loro confronti. E in effetti negli istituti carcerari del nostro Paese questo è più o meno quello che succede.

I curatori appartengono a due discipline diverse ma affini, così come il programma è frutto della collaborazione tra professionisti di discipline diverse che hanno creato un “campo trattamentale” di supporto e contenimento in cui può finalmente svilupparsi nei detenuti la disponibilità alla comprensione di sé e alla ricerca di soluzioni per la prevenzione della recidiva.
Si tratta quindi di un libro a impronta nettamente clinica oltre che criminologica, che oltre a guidare il lettore in un territorio poco esplorato nelle letteratura del nostro Paese (il reato sessuale visto dall’ottica di chi lo compie), gli offre un’ampia revisione della letteratura internazionale in materia e soprattutto una serie di strumenti pratici, diagnostici e terapeutici, di gruppo e individuali, per organizzare l’intervento.

E. Faretta: Cara Xella, in occasione del Prossimo Congresso a Vicenza, ambito nel quale tu presenterai il lavoro dal tema Il Corpo Amico– Le attività a matrice espressiva nel trattamento dei sex offenders …, mi piacerebbe farti qualche domanda in modo da iniziare a dialogare su questo tema e magari stimolare il dibattito e la curiosità. Come è nato il tuo interesse per un tipo di pazienti – possiamo chiamarli così? – tanto particolare?

C.M. Xella: Io, in realtà, ho cominciato ad avvicinarmi a questo campo così delicato trattando le vittime. Come psicoterapeuta del trauma psicologico, avevo e ho spesso a che fare con le conseguenze di abusi sessuali, avvenuti in età infantile o adulta. Sappiamo ormai che l’abuso sessuale è alla base di molte forme di disagio psichico, che vanno ben oltre il disturbo da stress post-traumatico in senso stretto.
Quando Paolo Giulini mi ha proposto di effettuare alcune valutazioni diagnostiche su detenuti sex offenders, ormai più di dieci anni fa, sono stata un po’ perplessa prima di accettare: chi voleva avere a che fare con gente del genere? Poi ho capito due cose: la prima, che trattare gli autori di reati sessuali – chiamiamoli per brevità sex offenders – significa lavorare per le vittime; la seconda, che con queste persone si può lavorare come con chiunque altro. Sì, possiamo chiamarli “pazienti”, ma senza dimenticare che sono anche colpevoli di un reato molto grave: il lavoro con i sex offenders richiede di mantenere sempre questo delicato equilibrio tra empatia per l’essere umano e condanna decisa per il comportamento deviante.

E. Faretta: In effetti, in un momento in cui l’attenzione e l’interesse è rivolto alle vittime di violenza, ci si può chiedere per quale motivo ci si dovrebbe occupare di coloro che commettono violenza. Cosa si fa nel mondo per questo problema?

C.M. Xella: In molti Paesi si è capito quanto ti dicevo più sopra, e cioè che quando si trattano coloro che hanno commesso questi reati, in realtà si lavora prima di tutto per le vittime, perché i trattamenti, all’interno e soprattutto fuori dal carcere, servono a prevenire la recidiva. Recidiva che, contrariamente a quanto si pensa comunemente, è inferiore a quella dei reati comuni: circa il 17%. Incredibile, vero? Eppure è così, i sex offenders ad alto rischio di recidiva ci sono, ma sono pochi. E in genere finiscono sui giornali, e vanno ad alimentare il mito della recidiva inevitabile. Non è così: la recidiva si può evitare, i programmi trattamentali la abbassano di circa la metà, i più recenti registrano risultati ancora migliori.
Che la recidiva non sia poi così elevata però non ci deve far pensare che allora non vale la pena di intervenire: il reato sessuale è un reato ad altissima nocività, che provoca danni immediati e a lungo termine non solo alle vittime dirette, ma anche alle loro famiglie e alla famiglia dell’aggressore.
Infatti, programmi trattamentali per sex offenders esistono in Canada, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Belgio, in Francia, in Spagna, nei Paesi Scandinavi, in Olanda… insomma, un po’ dappertutto nel mondo occidentale. Non però in Italia, dove teniamo in carcere questi soggetti per un tempo più o meno lungo, senza nessun intervento, e poi li lasciamo uscire senza nessun monitoraggio. Con il risultato che quelli più a rischio commettono recidive, e quelli che lo sarebbero meno finiscono per compiere reati comuni. Forse questo è un dato poco noto, ma il rischio che un sex offender uscito dal carcere compia una truffa, un furto o una rapina è molto più elevato rispetto al rischio di recidiva sessuale.
Questo è il risultato di un soggiorno in carcere di persone in genere incensurate, che entrano in contatto con un ambiente deviante e che quando escono non hanno più nulla (amici, legami familiari, lavoro, casa…), tantomeno un Servizio a cui riferirsi.

E. Faretta: Qual’è il vostro programma di intervento? Cosa proponete?

C.M. Xella: Il nostro programma si svolge sia in carcere che all’esterno. Il trattamento cosiddetto intramurario si svolge presso la Casa di Reclusione di Milano-Bollate, quello extramurario, che si svolge presso il Presidio Criminologico del Comune di Milano, è un proseguimento del primo, e prevede soluzioni diverse (individuali, di gruppo, territoriali…) a seconda del livello e dei fattori di rischio di ciascun soggetto.
Il modello al quale ci rifacciamo è di origine canadese e con i colleghi canadesi abbiamo tuttora contatti per mantenerci aggiornati con le linee guida internazionali. L’impostazione è cognitivo-comportamentale, con una particolare attenzione allo sviluppo della motivazione e alla qualità della relazione terapeutica, secondo i principi del cosiddetto Good Lives Model. Abbiamo aggiunto ai gruppi più “classici” (prevenzione della recidiva, ristrutturazione cognitiva, sviluppo dell’empatia) un corso di educazione sessuale e le attività a matrice espressiva di cui parlerò nel mio intervento, cioè la meditazione, l’attività sportiva coordinata e l’arteterapia, che integrano l’intervento basato sulla parola, quello che si svolge appunto nei gruppi tradizionali.
Il trattamento intramurario dura dieci mesi ed è su base volontaria. E’ composto da una prima fase valutativa di due mesi, al termine della quale , se sia l’équipe che il detenuto decidono che è possibile lavorare insieme, inizia il programma intensivo. I partecipanti firmano un contratto, tra le cui clausole c’è anche quella di dare la priorità al trattamento rispetto a qualunque altra attività carceraria, compresi scuola e lavoro, e a non chiedere permessi di uscita o liberazione anticipata fino alla fine del percorso. L’impegno è di circa 15 ore settimanali di attività trattamentali.
Il trattamento extramurario comprende attività di gruppo, in cui si prosegue il lavoro iniziato in carcere e, se necessario, incontri individuali. Abbiamo anche iniziato a utilizzare l’EMDR per il trattamento di coloro che presentano, in anamnesi, una storia di traumi, sessuali e non.

E. Faretta:Per quali motivi si dovrebbe stimolare ad organizzare interventi in questo campo? Quali possono essere eventuali benefici?

C.M. Xella:Come dicevo prima, il nostro scopo è ridurre il rischio di recidiva ed evitare altre vittime, oltre che dare a queste persone degli strumenti in più per gestire le loro relazioni in modo da rispettare gli altri e se stessi. Nel nostro Centro esterno, gli utenti spesso vengono anche da uomini liberi, quando non hanno più nessun obbligo con la giustizia, perché trovano utile avere ancora uno spazio di incontro e di riflessione. Molti hanno imparato a temere la recidiva e sanno che questo lavoro li può aiutare. In effetti, i casi di recidiva in persone trattate da noi durante la carcerazione sono stati molto pochi: per ora, 4 su 180 detenuti trattati.
La continuazione del lavoro all’esterno è molto importante: in effetti, il rischio che i nostri utenti commettano altri reati, sessuali o meno, è ben più presente quando sono liberi che quando sono in carcere.
So bene che questi non sono momenti propizi per chiedere di finanziare servizi sociali, specie poi così impopolari. Ma proviamo a fare due conti.
La permanenza in carcere di ogni detenuto costa al contribuente italiano 3511€ al mese, 42.132 € all’anno. A questi costi bisogna aggiungere i costi vivi dell’indagine, dell’arresto e del processo, calcolati in circa 25.000 € in media. Poi ci sono i costi invisibili, cioè le conseguenze degli enormi danni inflitti alla vita delle vittime: difficile dire quanto valgano una o più vite segnate dal trauma, ma forse alcuni ricercatori californiani non sono così lontani dal vero se hanno calcolato in 1 milione e mezzo di dollari il valore complessivo dei danni che conseguono a un reato sessuale.
A fronte di ciò, un programma per autori di reati sessuali costa tra i 4000 e i 7000€ a partecipante, a seconda dell’intensità del trattamento richiesta. Se è vero, come è vero, che il trattamento riduce la probabilità di recidiva, il calcolo costi/benefici è presto fatto.
La carcerazione è un eccellente stimolo all’esame di realtà, perché segnala che il comportamento adottato dal reo è un comportamento deviante, sanzionato dalla legge. Non un gioco, né un errore, né una perdita di controllo, come spesso queste persone raccontano a se stesse e agli altri: è un reato, e un reato molto grave. Ma la carcerazione deve servire a qualcosa: confinare un detenuto in un reparto di “infami”, senza nessuna attività, senza nessuno spazio di riflessione, non fa che rinforzare la negazione della responsabilità e il vissuto di “vittima della società” che tanto spesso questi soggetti hanno.