Psicosomatica

Conversazione

Piero Parietti e Antonino Minervino conversano sul prossimo Congresso Nazionale della SIMP , in corso di organizzazione a Parma per il maggio 2011.

Parietti: parliamo del XXXIII° Congresso Nazionale della SIMP che stai organizzando a Parma per il maggio 2011 e al quale hai dato il titolo di “Pregiudizio e terapie”.

Minervino: un congresso su pregiudizio e terapie e non solo sul pregiudizio perchè in questo caso l’area tematica sarebbe stata più difficile da circoscrivere. L’idea nasce dall’evidenza che qualunque atto terapeutico ha a che fare tanto con lo  specifico meccanismo d’azione quanto con tutta una serie di variabili che possiamo indicare come aspecifiche ma non per questo meno importanti. Fra questi elementi cosiddetti aspecifici uno molto caro a noi della Simp  è la relazione, all’interno della quale quell’atto terapeutico viene prescritto e ricevuto. Altri invece si riferiscono proprio alla dimensione del pregiudizio. Pregiudizio in chi prescrive o propone l’atto terapeutico e pregiudizio in chi quell’atto terapeutico lo chiede e lo riceve.

Parietti: pertanto il pregiudizio ha valenze tanto in senso positivo che in senso negativo.

Minervino: pregiudizio nel senso letterale di una valutazione preliminare,  un giudizio che sta prima e che può essere tanto un giudizio negativo quanto un giudizio positivo.

Parietti: ci si potrebbe chiedere che relazione c’è fra pregiudizio e placebo.

Minervino: Il pregiudizio ha a che fare con il placebo tanto quanto ha a che fare con qualunque altra forma o altro atto terapeutico. Infatti il placebo viene usato come un atto terapeutico propriamente detto, quindi è più suggestiva l’idea che la dimensione del pregiudizio giochi molto sul placebo ma senza avere una particolare specificità rispetto a quanto non lo possa avere per qualunque altro atto terapeutico. E’ pur vero che il placebo viene comunemente inteso come un atto terapeutico, la prescrizione e la somministrazione di qualcosa che in teoria dovrebbe essere neutro, ma che in realtà produce un risultato. E’ noto invece che il placebo produce risultati tant’è che  fa da riferimento in quasi tutte le sperimentazioni dei farmaci e il valore riferito all’uso del placebo è sempre un numero significativo il che vuol dire che esattamente neutro non è. Quindi il discorso del placebo rimanda di più agli elementi aspecifici di una terapia piuttosto che al discorso del pregiudizio. Si può pensare al placebo come all’intenzionale volontà di un terapeuta di indicare o prescrivere un atto terapeutico che non faccia nulla valutando pregiudizialmente l’esito di questa azione.

Parietti: il pregiudizio ha delle correlazioni col contesto culturale, ambientale in cui si può svolgere la terapia?

Minervino: Sicuramente il contesto e la cultura hanno un’influenza sul pregiudizio. Si può immaginare per esempio che in alcune culture ancora improntate alla dimensione rurale o contadina determinati convincimenti inducano  a pensare pregiudizialmente che certi atti terapeutici siano  più accettabili o meno accettabili, consentiti o non consentiti, rispetto ad altri contesti culturali per esempio industrializzati o metropolitani all’interno dei quali il pregiudizio si muove in direzione completamente opposta.

Parietti: molto interessante diventa da questo punto di vista l’analisi dei flussi dei migranti che attraversano l’Italia e l’Europa.

Minervino: certamente pregiudizio e terapie confrontati con il fenomeno dei flussi dei migranti pongono questioni impegnative legate all’incontro non sempre felice fra culture molto diverse. Spesso succede che noi, detentori della cultura ospitante rispetto alla cultura migrante, invece di aprirci alla conoscenza dell’altro riteniamo che sia (pregiudizialmente) corretto, dovuto, etico imporre all’altro quelli che sono i dispositivi che connotano la nostra cultura ed il nostro modo di fare. Quando tutto ciò poi si trasforma nelle pratiche delle salute – e quindi nelle terapie – i problemi possono diventare drammatici perché anche nelle culture che ospitiamo esistono pregiudizi in termini positivi o negativi di cui noi non siamo assolutamente a conoscenza. Di  quelle culture per noi straniere non solo non conosciamo gli elementi costituitivi ma ne ignoriamo anche i risvolti pratici e comportamentali. Da ciò nasce il bisogno di assumere atteggiamenti di distanza prodotti quindi dalla nostra ignoranza e dalla paura del diverso. C’è troppa poca curiosità e troppo poca cultura dell’accoglienza e la scena spesso si riempie di sordi e di muti. I  migranti sono portatori di un bisogno di salute spesso difficile da interpretare; esprimono, quando ce la fanno e per quanto distorte, domande che se prese in considerazione ci consentono di imparare a conoscere i nostri pregiudizi, a conoscere i loro e a creare un dialogo.

Parietti: proprio per questo motivo parte dei lavori del congresso saranno ad impronta antropologica e sociologica.

Minervino: infatti noi dobbiamo chiedere alle altre culture e alle altre scienze umanistiche di aiutare i professionisti della salute a creare un contesto all’interno del quale i propri atti terapeutici ed i propri comportamenti ritrovino un senso che non sia solo quello di una magica ed onnipotente capacità tecnologica, ma anche quello di una capacità di accoglienza.

Parietti: un congresso di psicosomatica che si porrà l’obiettivo, fra gli altri, di produrre nuovi stimoli e nuove aperture.

Minervino: è un congresso che vuole ripescare uno dei paradigmi fondanti la psicosomatica italiana, la psicosomatica secondo la Simp:  il paradigma relazionale. La relazione col proprio paziente, ma anche le relazioni con le altre discipline, con le altre culture, con gli altri saperi. Potremmo dire che in fondo coltiviamo l’ambizione di un nuovo Rinascimento nella misura in cui rinascimentale è un atteggiamento che mette insieme culture, saperi, esperienze attorno alla dimensione umana.

Parietti: superare quindi anche il pregiudizio verso la psicosomatica.

Minervino: questo è certamente un passaggio molto importante. Il pregiudizio sulla psicosomatica è sempre stato quello che faceva della  psicosomatica  una disciplina il cui oggetto era in sostanza l’ignoranza della medicina. La psicosomatica come disciplina che si occupa della sofferenza dell’essere umano per difetto, nel senso di occuparsi di tutto ciò che la scienza non riesce a ricondurre nelle proprie categorie diagnostiche o negli ambiti della propria conoscenza. Questa ignoranza diventa l’elemento costitutivo della psicosomatica. Naturale quindi che l’oggetto della psicosomatica, nato dall’ignoranza,  susciti disprezzo e diffidenza così come poco amati sono sempre stati i cosiddetti pazienti psicosomatici e poco amata è stata la diagnosi psicosomatica dai pazienti. E’ forse più naturale pensare che si abbia a che fare con la paura suscitata dall’avere a che fare con fenomeni che non rientrano nella nostra conoscenza. Questo atteggiamento pregiudiziale ha impedito per troppo tempo al sapere psicosomatico di essere utilizzato come una risorsa per approcciare una vasta dimensione della sofferenza dell’uomo. Dimensione resa esplicita dai dati epidemiologici che indicano quanto alta sia la presenza di questo genere di sofferenza nei circuiti della sanità.

Parietti: dobbiamo quindi lavorare per una nuova prospettiva che dia alla psicosomatica la possibilità di esprimere tutte le proprie potenzialità con ricadute positive in ambito sanitario, sociale ed economico, visto che un approccio psicosomatico consente non solo una efficace azione di prevenzione e di cura ma anche un contenimento dei costi data la presenza di numerosi pazienti psicosomatici fra i cosiddetti “alti utilizzatori”.

Minervino: ci sono molti aspetti da questo punto di vista che vanno riportati all’attenzione di tutti. Il primo è quello che citavi tu: introdurre buone pratiche nell’erogazione delle prestazioni sanitarie, nelle risposte alla sofferenza. Si tratta di  introdurre quella che potremmo indicare come una formula felice, per la quale il portatore di un bisogno trova una risposta compiuta e l’erogatore della risposta trova un’efficacia in ciò che fa con un incremento della soddisfazione professionale. Ancora oggi spesso la formula è piuttosto quella che produce infelicità dato che l’incontro è tra chi porta un bisogno spesso poco compreso e l’erogatore di una prestazione spesso troppo poco efficace.  Formula che produce soprattutto  alti consumatori dei sistemi sanitari e burn out. Dedicare un congresso al tema del pregiudizio e delle terapie consente di portare attenzione a fenomeni di questo tipo. Ma attenzione va data anche al pregiudizio su certe categorie di farmaci, come i farmaci per la salute mentale o per altre patologie. Ciò comporta una limitazione del loro uso appropriato e dell’accesso a questo genere di risorsa da parte di pazienti che ne avrebbero bisogno. Il pregiudizio getta ombra sull’uso di molte terapie non solo farmacologiche ma anche fisiche: ancora troppo poco apprezzate sono le potenzialità della medicina fisica e quantistica. Quanti di noi conoscono, pur avendoci a che fare quotidianamente, l’importanza dell’acqua?

Ma il pregiudizio esercita analoga forza anche negli atteggiamenti e nei comportamenti dei portatori del bisogno di terapia. Ci si rifà al discorso iniziale: chi entra nel circuito delle prestazioni sanitarie ritiene di sapere a secondo del proprio percorso, della propria cultura, della propria famiglia che determinate cose che possono essere fatte per fargli riconquistare la salute sono buone o non buone, chiedibili o non chiedibili. Chi opera nella sanità spesso si dimentica che esiste una cultura della salute che è tipica della famiglia. Ogni famiglia crea una cultura della salute per cui nei suoi armadietti dei farmaci o nelle sue pratiche della salute esistono cose che sono tipiche per lei e che per i suoi componenti costituiscono un costante riferimento. Si tratta di una variabile importante che incide sulla possibilità che quello che io prescrivo sia più o meno sintonico con quell’ ambiente culturale e familiare e che può renderlo efficace o no, accessibile o no.

Parietti: parliamo ora del pregiudizio verso la psicoterapia, pregiudizi presenti tanto negli operatori quanto nei pazienti legati alla difficoltà ad aprirsi a dimensioni psicologiche, emotive e relazionali. E non bisogna ignorare i pregiudizi presenti anche nell’ambito della psicoterapia come quelli esercitati da un approccio psicoterapico nei confronti di altri approcci. La stessa psicoanalisi è stata all’inizio oggetto di pregiudizi anche molto ostili, di cui anche la psicosomatica ha risentito.

Minervino: certamente bisognerà porre attenzione alle psicoterapie e tener conto delle evidenze sempre più forti della efficacia dei trattamenti integrati. D’altro canto bisognerà impegnarsi e portare attenzione al pregiudizio esercitato su alcune categorie diagnostiche: per citarne solo alcune si può indicare  la follia, il dolore, il cancro. Sicuramente si tratta di categorie che prestano molto più facilmente il fianco all’azione del pregiudizio. In realtà bisogna evitare il rischio di lasciare in ombra il discorso per il quale ogni forma di sofferenza e di malattia può risentire negativamente dell’azione del pregiudizio. Bisogna quindi puntare per insistere su un discorso caro all’approccio psicosomatico secondo la Simp, per il quale è in una relazione consapevole e competente che il rischio del pregiudizio può stemperarsi. La competenza relazionale è un dispositivo che può far sì che gli elementi di pregiudizio, presenti tanto nel terapeuta quanto nel paziente, possano essere portati alla visibilità, alla trasparenza, alla consapevolezza. Se gli attori della scena della terapia sono in una dimensione dell’incontro e sono in un ambiente relazionale sufficientemente sano allora gli aspetti pregiudiziali e pregiudizievoli si stemperano. Quindi l’ambizione non è solo quella di incrementare la dimensione del sapere rispetto alla questione del pregiudizio ma di trasformare questa consapevolezza del sapere in un atto, in uno stare in terapia che tenga conto di queste cose.