XXV Congresso

Scriveva F. Fornari: “La nostra cultura è una cultura di grattacieli. La nostra anima ha trovato un nuovo modo di salire al cielo Ma la nostra cultura è anche la cultura del cancro”

Il Cancro è malattia e la malattia è spesso dolore; dolore del corpo, e dolore dell’anima entrambi, come scrive E. Borgna “… quali modi diversi di entrare in relazione con se stessi e con gli altri: il mondo….”
E proprio dal testo di questo autore ( La solitudine dell’anima ed: Feltrinelli ) ci siamo permessi di trarre accorpandoli in maniera, speriamo corretta, parti significative relative al dolore, alla sofferenza nella malattia.
“ Il dolore fa parte del mondo fisico, la sofferenza di quello psichico. Due sfere diverse ma collegate tra loro e interagenti l’una sull’altra. Il dolore può venire localizzato in un punto (mal di testa, mal di pancia), mentre la sofferenza tormenta tutto il nostro essere, ci logora, ci indebolisce e spesso ci degrada.
Il dolore è qualcosa che trattiamo come un male naturale, ammissibile …
Al dolore si perdona. Non così alla sofferenza.
La sofferenza ci appare un’ingiustizia, una disgrazia, un torto immeritato: la nostra prima reazione alla sofferenza è di ribellione, di protesta. La sofferenza ci offende, anzi ci degrada” …

“…C’è innanzitutto la sofferenza fisica: le malattie interminabili che avvelenano la vita quotidiana; come il cancro”, nelle quali – secondo Thevenot – alla sofferenza fisica si contrappone la sofferenza psichica: questa contrassegnata dalla depressione e dall’angoscia; ma anche dalla morte di una persona cara, o dalla esperienza della solitudine: dell’essere, o del sentirsi, abbandonati da tutti. Alla sofferenza psichica si accompagnano le sofferenze di matrice sociale: la disoccupazione, le incomprensioni che accadono quando siamo nelle stagioni della inquietudine del cuore e della disperazione così difficili da essere capite. ….”

“Ogni malattia somatica si accompagna a risonanze emozionali che possono influenzarne l’andamento, e che in ogni caso accrescono la sofferenza in chi già dalla malattia sia trascinato in una condizione di debolezza, di dolore, e talora di disperazione.
Quando ci si ammala, e ancora di più quando si entra in un ospedale, si ha bisogno di essere ascoltati. Non sempre medici e infermieri ne hanno il tempo e non sempre gli stessi familiari, imprigionati nelle proprie incombenze quotidiane, hanno la disponibilità necessaria ad ascoltare e, ancora di più, ad essere presenti.
Conoscere la psicologia di una persona, conoscerne gli stati d’animo, le emozioni, le speranze e i timori, non è una cosa facile e non è una cosa semplice, ma è una cosa possibile se si è capaci di ascoltare e di stabilire una relazione che ci metta in contatto con gli altri in una disposizione d’animo aperta e spontanea.
Non è necessario avere fatto studi di psicologia, o di psichiatria, per avviarsi a conoscere quali siano gli stati d’animo e le emozioni di una persona malata, e di quale aiuto questa abbia bisogno, e sono invece necessarie doti di sensibilità e di attenzione, di generosità e di intuizione, che sono presenti, o assenti, al di là degli studi che si siano fatti.
Ma è necessario, anche, riflettere sulle parole e sui gesti con cui ci rivolgiamo a persone sofferenti….”

Potremmo dire che, storicamente, a partire da una sempre maggiore, seppure frazionata e confusa consapevolezza dei vari aspetti citati da Borgna attraverso le sue esperienze personali e professionali e con tanta sensibilità esposti nei suoi scritti, che è gradualmente andata strutturandosi quella che viene indicata come “psicooncologia”, intesa anche quale modalità tecnica per surrogare a livello professionale carenze ed insufficienze degli operatori di un ambito specifico e che E. Faretta ha sintetizzato come “Sostegno psicologico e psicoterapia” (Bottaccioli Stress e cancro) scrivendo:
“L’intervento psicoterapico nel cancro può essere definito come l’insieme degli interventi volti a ripristinare un equilibrio emotivo e relazionale ottimale in una persona malata e in difficoltà, promuovendo le risorse dell’individuo e dell’ambiente. L’obiettivo posto è quello di favorire il processo di accettazione e adattamento alla malattia, evidenziando le distorsioni cognitive, i vissuti emotivi e comportamentali disfunzionali correlati alla malattia che inducono il paziente a modificare drasticamente aspettative e obiettivi di vita e ad “arrendersi” passivamente alla propria condizione di “malato”. Una condizione che filtra, modificandoli, il sistema di conoscenza, il senso di identità personale e relazionale del paziente, aggravando il “peso psicologico” della malattia e ponendolo in una condizione di rinuncia e di attesa delle peggiori conseguenze possibili.
Nell’affrontare una psicoterapia con pazienti con il cancro, è necessario considerare non solo il disturbo, le caratteristiche di personalità, il sistema di apprendimento del paziente, ma anche la precarietà dell’adattamento dovuto alle caratteristiche cliniche della malattia…”

Ma, in pratica quale aiuto fornire praticamente ad un malato ospedalizzato (e non solo per una patologia cancerosa)? Vogliamo, ancora una volta riportare e questa volta integralmente quanto scrive E.Borgna – nel lavoro citato – su “ …come comportarsi dinanzi ad una persona malata, ad una persona che sia ospedalizzata, in particolare, cosa dirle e come cercare di renderle meno dolorosa la sofferenza, e meno acuta la solitudine?” e che, stampato andrebbe esposto, secondo noi, all’ingresso di ogni camera d’ospedale.
Scrive Borgna: “ Sono cose semplici, quelle che vorrei dire, ma sono cose delle quali chi sta male ha forse bisogno più che non di altre cose astratte e formali.

  • Quando si entra in una stanza, ricordiamoci di bussare sempre alla porta per non giungere inattesi.
  • Non stringiamo la mano della persona malata con un calore eccessivo, non cambiamo il tono della voce, manifestiamo la nostra pena con parole semplici e con sincerità, se ne siamo capaci, e avviciniamoci con discrezione senza invaderne i confini esistenziali.
  • Non lasciamoci prendere dalla fretta, e non diamo questa sensazione.
  • Si può rimanere accanto al letto di un malato per pochi minuti senza dare il senso di una qualche irrequietezza e nemmeno il senso di pensare ad altro; e ci si può fermare a lungo, magari per un’ ora, dando sempre l’impressione di non avere tempo, e di essere impazienti di concludere la visita.
  • Le cose, che diciamo ad una persona ospedalizzata, restano impresse nella sua memoria e nel suo ricordo; mentre, nel vortice della vita di ogni giorno, siamo inclini a dimenticare le cose che abbiamo ascoltate: divorate dal drag§o dell’oblio dal quale poche si salvano.
  • Cerchiamo, così, di dimostrare alla persona malata, quando la visitiamo o la assistiamo, che il tempo a lei dedicato è espressione di una sincera attenzione, e nasce dalle ragioni del cuore.

Cose davvero molto semplici, e quasi banali, e nondimeno di grande importanza nel destare in chi sta male risonanze emozionali positive: che aiutino almeno a rendere meno lacerante l’esperienza della solitudine; ma altre riflessioni sono possibili a questo riguardo.
Sediamoci accanto alla persona malata anche se rimaniamo nella stanza pochi minuti; ma non sediamoci sul letto.

  • Non devastiamone lo spazio vissuto, i confini simbolici che la separano dagli altri, così fragili e così vulnerabili: così diversi da quelli che, a casa, la difendevano dalle presenze e dagli sguardi altrui.
  • Non guardiamo l’orologio, e non serviamoci di pretesti, e di scuse insincere, quando dobbiamo concludere la nostra visita.
    § Non scordiamoci mai, del resto, che lo stare male, la malattia, può rendere faticosa ogni conversazione.
  • Quando siamo in contatto con una persona malata, guardiamola negli occhi che, sereni e luminosi, angosciati e tristi, disperati e infelici, arcani e sognanti, immobili e impietriti, ci dicono qualcosa della sua anima: delle sue attese e delle sue speranze.
  • E una delle cose più dolorose, e inutilmente strazianti, che possa essere fatta ad un malato, è quella di parlare del suo “caso”, da parte di medici e di infermieri, come se egli non fosse presente; o di parlarne in modo tale che egli non senta quello che gli uni dicono agli altri.
  • Sono sanguinanti ferite, queste, che si aggiungono a quelle determinate dalla malattia; e che si ripetono crudelmente di ospedale in ospedale sulla scia di una insostenibile aridità di cuore, o anche solo di una banale noncuranza.
  • Sono lacerazioni etiche che, volontarie o involontarie, accrescono, e dilatano vertiginosamente, la coscienza della grande solitudine nella quale si è immersi quando la malattia, quella acuta e quella cronica (non saprei chiamare diversamente, ma lo faccio così malvolentieri, una malattia che si estenda inesorabile nel tempo: senza soste, o con soste brevi), scenda in noi: nel nostro corpo e nella nostra anima: sottraendoci alle nostre comuni (quotidiane) relazioni e occupazioni che quasi non ricordiamo nemmeno più di avere realizzate.