Medico, paziente e malattia

Libri |Medico, paziente e malattia

 

Autore: Michael Balint
Curatori: F. Benincasa, M. Perini
Editore: Giovanni Fioriti Editore, 2014
ISBN: 8898991037, 9788898991037
Lunghezza: 438 pagine

 

 

Antonino Minervino
Introduzione

Alla fine degli anni ‘70 frequentavo il primo anno di specializzazione in psichiatria presso la clinica psichiatrica dell’Università di Bologna. Ebbi l’occasione e la fortuna di avere come insegnante un professore che consigliò la lettura di un libro fino ad allora a me ignoto: “ Medico, paziente e malattia”, di Michael Balint, con una prefazione di Pier Francesco Galli. L’autore del libro mi era sconosciuto, mentre l’autore della prefazione mi era molto noto. La lettura di quel libro e della prefazione mi colpirono moltissimo e posso con tutta sincerità affermare che segnarono in maniera molto significativa il corso della mia formazione e l’esercizio della mia professione di medico prima, e di psichiatra, psicoterapeuta e formatore poi.
Della prefazione di Pier Francesco Galli mi rimase molto impressa la proposta chiara e operativa che alcune cose molto importanti della professione si possono apprendere solamente dall’esperienza, attraverso un processo che, diversamente da quello tipico dell’apprendimento scolastico, passa attraverso una condivisione affettiva ed emotiva di quanto si è fatto nel proprio lavoro. Tale condivisione affettiva ed emotiva avviene in una situazione di gruppo che crea una socializzazione dell’espressione emotiva dell’esperienza lavorativa attraverso la rete di relazioni di cui il gruppo vive. Mi colpiva molto che all’apprendimento nozionistico venisse data la dovuta importanza, ma con un ruolo accessorio in un’esperienza formativa come quella proposta.
La lettura del libro di Balint mi colpì per la proposta di esperienze concrete fatte dal gruppo di lavoro e per la continua puntualizzazione da parte dell’autore dei concetti chiave che improntano un percorso di formazione che ha come scopo quello di rendere i partecipanti del gruppo attenti agli aspetti psicologici dei propri pazienti, di qualunque malattia soffrano, attenti alle modalità di proposta dei sintomi, attenti ai fallimenti dei propri interventi, attenti alle proprie reazioni emotive e comportamentali: insomma, competenti nella relazione con il proprio paziente.
Mi colpiva la testimonianza di un gruppo che con costanza e continuità si ritrovava per lavorare insieme a un esperto che veniva dal mondo della medicina e della psicanalisi per trovare insieme il senso del proprio lavoro soprattutto nelle situazioni vissute come difficili, non soddisfacenti, dove in qualche modo si aveva il sentore che la proposta del paziente non fosse solo una malattia del corpo; ma soprattutto che in tali situazioni il bagaglio di conoscenze del medico fosse insufficiente a produrre una risposta utile con conseguente frustrazione tanto per il paziente quanto per il medico stesso.

All’epoca della prima lettura del libro arrivava a casa dei medici, per effetto dell’iscrizione all’Ordine, una rivista che si chiamava “Tempo Medico”. Su quella rivista mi capitò di leggere l’annuncio di un evento in Svizzera che si chiamava “Incontri Internazionali Balint di Ascona”, organizzati già da qualche anno da Boris Luban Plozza.
Incuriosito e attratto dall’annuncio convinsi due compagni di studi ad andare ad Ascona per conoscere da vicino l’esperienza dei Gruppi Balint e rendermi conto di che cosa in realtà si trattasse. Fu anche questa un’esperienza di grande importanza che segnò il percorso della mia formazione e dalla quale non mi allontanai più.
Durante la frequentazione nel corso di tanti anni degli Incontri Internazionali di Ascona ebbi modo di incontrare molti colleghi italiani e stranieri in una atmosfera di condivisione unica e per molti versi irripetibile.
Chi come me ha fatto questo percorso si ritrova nel tempo a ricorrere in maniera continua e irrinunciabile a ciò che da questa esperienza ha appreso.
E ciò per motivi che cercherò di descrivere durante questa introduzione in modo da rendere chiaro, mi auguro, che riproporre una edizione di questo libro risulti non un’operazione nostalgica ma il rilancio di un metodo di formazione che, seppure in un’epoca che ha visto cambiamenti irreversibili e che sono stati descritti nelle note editoriali che precedono la lettura del testo, mantiene attualità, contemporaneità e modernità che si fondano su alcuni principi di base che vanno riproposti con forza.

Il libro venne pubblicato in Inghilterra nel 1957 e la prima edizione italiana è del 1961, con la prefazione di Pier Francesco Galli datata 1960.
Nell’introduzione al testo Balint è molto chiaro nell’indicare che il lavoro è una ricerca condotta da medici di medicina generale e psichiatri che, utilizzando lo strumento del gruppo e nell’ambito di un programma della Tavistock Clinic di Londra, cercano di capire attraverso i dati forniti dall’esperienza quali siano le implicazioni psicologiche ed emotive in una vasta gamma di situazioni che si offrono all’attenzione del medico generalista e che il campo di osservazione più idoneo sia la relazione fra il medico ed il paziente.
Nella premessa riconosce il ruolo avuto dall’esperienza già condotta da Enid Eincholz, poi divenuta sua moglie e perciò meglio conosciuta come Enid Balint, ma l’accenno che si trova non esplicita del tutto quanto sia vicina l’origine di quelli che saranno chiamati Gruppi Balint ai gruppi di discussione dei casi ispirati al case-work e condotti da Enid con le assistenti sociali nell’ambito dell’attività del Family Discussion Bureau (FBD) (Balint 1959).
Gli anni delle esperienze che fanno da matrice ai Gruppi Balint possono essere collocati fra il 1947 ed il 1950. Balint ha finalmente ottenuto un posto da ricercatore nella Tavistock, si interessa di tutto quanto si sviluppa nei vari ambiti di ricerca, soprattutto nel sociale, ed accetta con entusiasmo l’invito della Direzione della Tavistock a collaborare con la Eincholz. In un lavoro di Balint viene riportata una frase in cui lui stesso si riferisce “…a due esperienze pilota, quella della Family Discussion Bureau per gli operatori sociali e della clinica Tavistock per i medici generici i cui risultati sono molto incoraggianti” (Balint 1954).
Comincia dunque un lavoro di ricerca in gruppo che viene dapprima nominato “metodo Tavistock”, poi “ Training cum research” ed infine, anni dopo, Gruppo Balint.
Bisogna anche fare un accenno a un elemento di contesto non secondario nel favorire l’esperienza di Balint con i medici di famiglia, e cioè lo sviluppo del Servizio Sanitario Nazionale (NHS) che aveva come principio quello di offrire un’assistenza capillare alla popolazione inglese, per cui i medici si vedevano assegnati diversi pazienti fino ad un massimo di 4000. Alla loro osservazione potevano presentarsi le più svariate patologie, comprese tantissime forme funzionali. Da qui l’esigenza, molto sentita anche dai gestori del NHS, di una formazione complementare per i general practitioner, affrontata dapprima senza successo con conferenze e poi affrontata con la metodologia proposta da Balint che si rifà a quanto egli aveva già fatto a Budapest prima di trasferirsi in Inghilterra. Si parla della “chimera anglo-ungherese”, intendendo con ciò che la matrice dei Gruppi Balint non è puramente inglese, ma vede la felice congiunzione di un’anima psicosociale (metodologia del lavoro in gruppo con il case-work di Enid Eincholtz) con un’anima psicoanalitica (l’esperienza di Bion, che Balint conosce e frequenta alla Tavistock, e l’esperienza di controllo della scuola ungherese, testimoniata dalla corrispondenza fra Ferenczi e Freud, e alcune esperienze che già lo stesso Balint aveva fatto in Ungheria prima del suo esilio in Inghilterra) (Balint 1926).
La particolarità di tale momento viene ripresa e sottolineata in diverse pubblicazioni . Si riferisce del malessere che pervade in quegli anni molti dei medici generalisti britannici per il sentimento d’impotenza che li coglie nell’occuparsi di molti pazienti funzionali a fronte di un crescente spirito tecnologico e scientifico che pervade la medicina ospedaliera (Missenard 1982).

A distanza di pochi anni dall’uscita del libro in Italia, Balint è a Roma nel giugno del 1967 (sarà poi di nuovo in Italia a Milano nel 1968) durante la “ Settimana di Studi Internazionali di Psicosomatica” che comprende anche il primo congresso nazionale della Società Italiana di Medicina Psicosomatica (SIMP, https://www.simpitalia.com) e ne sancisce la nascita (Antonelli 1991). La presenza di Balint a Roma in tale occasione è anche, per volontà del Presidente fondatore della SIMP Ferruccio Antonelli, una scelta di campo molto precisa che vede nell’aspetto relazionale della professione medica, e di tutte le professioni sanitarie e di aiuto, una componente la cui importanza comincia ad essere evidente e studiata e che va a prendere il posto di uno dei paradigmi fondanti nello sviluppo della cultura psicosomatica e nell’approccio psicosomatico.
Dalla fine degli anni sessanta cominciano a svilupparsi in Italia con un certo fervore una serie d’iniziative d’informazione e di sensibilizzazione sul metodo di formazione basato sul Gruppo Balint tanto per impegno della SIMP con Piero Parietti (Parietti e Minervino 1997), Boris Luban Plozza (solo per citare i primi), quanto per impegno di altri personaggi autorevoli nel mondo della psicoanalisi e della formazione.
Severino Rusconi rappresenta certamente una figura di primo piano nell’avvio e nello sviluppo dei Gruppi Balint in Italia. E’ del 1966 un primo gruppo a Milano condotto da lui e da Mara Palazzoli Selvini, e dalla sua iniziativa nasce l’Associazione Medica Italiana Gruppi Balint (AMIGB, http://www.amigb.it) che sarà in quegli anni molto attiva nel proporre esperienze di informazione, sensibilizzazione e formazione al Gruppo Balint.
Sono anche gli anni in cui, sempre a Milano, nasce un’altra realtà molto significativa, Il Ruolo Terapeutico, grazie all’impegno di Sergio Erba che vede nella psicoanalisi una preziosa proposta da rendere disponibile anche a chi non vuole fare lo psicoanalista. L’obiettivo è quello di avvicinare tutte le professioni di aiuto ad una concezione e ad una pratica della professione che tenga conto della dimensione affettiva ed emotiva che impregna la relazione professionale. Una scelta decisa verso la proposta del Gruppo Balint.
Rusconi collabora nei primi anni dell’attività de Il Ruolo Terapeutico ed è sull’omonima rivista che esce un articolo di particolare importanza e ancora di forte attualità: “L’addestramento al rapporto medico malato” (Rusconi 1973).
E’ un articolo che fa una chiara puntualizzazione metodologica circa la formazione e l’addestramento alla relazione medico paziente con la proposta argomentata di tenere separate ed in successione la fase informativa, di sensibilizzazione e di formazione vera e propria e proponendo infine la questione, tuttora problematica, della formazione dei conduttori.
Boris Luban Plozza è stato per il movimento balintiano una figura di particolare rilievo: la sua vocazione internazionale ne ha fatto un grande tessitore di relazioni, un balintiano naturale. La lettura del libro di Balint lo spinge ad andare a Londra nel 1960 e a incontrare Michael ed Enid, quindi li invita in Svizzera ed inizia ad organizzare gli Incontri Internazionali di Ascona.
La SIMP ne fa un socio onorario ed è lui che insieme a Piero Parietti avvia, parallelamente alle esperienze di Rusconi e di Erba, una intensa attività di diffusione del Gruppo Balint in Italia con seminari residenziali in diverse località.
L’esperienza di Ascona, al Monte Verità, rappresenta un’occasione di grande efficacia per la diffusione del Gruppo Balint. Viene organizzata con il patrocinio ed il coinvolgimento attivo delle Società Francese, Italiana, Tedesca, Svizzera, Austriaca di Medicina Psicosomatica, della Federazione Internazionale Balint (FIB) e agli inizi degli anni 70 viene introdotto il Premio Balint riservato agli studenti che presentano un lavoro sulla relazione col paziente. Questo grazie alle straordinarie capacità di Boris Luban Plozza di coinvolgere un gran numero di partecipanti provenienti da molti paesi europei prima e da molte altre parti del mondo poi, persone che si incontrano in un’atmosfera di reciproca disponibilità alla conoscenza ed all’ascolto, e che godono della presenza attiva ed incisiva dei più autorevoli formatori. È sempre per merito di Luban Plozza che ad Ascona nasce un Centro di Documentazione Balint e si sviluppa una metodologia di formazione che s’ispira al GB ma ne modifica la composizione: il Gruppo Monte Verità (Luban-Plozza e Minervino 1994). Lo sviluppo dell’esperienza italiana si avvale anche del contributo di Klaus Rohr, già Presidente della Società Svizzera di Medicina Psicosomatica e riconosciuto esperto conduttore internazionale di Gruppi Balint oltre che organizzatore di una esperienza di formazione, “La Settimana di Sils” dove lo stesso Balint ebbe modo di intervenire in più di una occasione.
Leonardo Ancona, molto noto per la sua cultura sui Gruppi, s’interessa al Gruppo Balint e contribuisce a dare impulso alla sua diffusione in Italia. Ancona attribuisce a tale metodo una potenza particolare nel processo di consapevolezza delle implicazioni emotive e affettive nelle relazioni professionali nell’ambito delle professioni di aiuto e, grazie anche al suo particolare talento analitico, sperimenta una modalità di conduzione molto centrata su interventi interpretativi (http://www.scuolaromanabalint.it ) (Minervino 2007).
Anche a Torino si avvia un’intensa attività di formazione con il GB, supportata dal locale Ordine dei Medici, attività che confluirà poi in parte nei programmi di lavoro del NODO Group, un’associazione che nasce in diretto collegamento con la Tavistock Clinic (http://www.ilnodogroup.it).
Dalla metà degli anni sessanta il Gruppo Balint ha in Italia un impulso considerevole grazie all’impegno diretto di autorevoli esponenti del mondo della psicoanalisi, della psicologia e della medicina italiana. Rispetto a quanto ho sinteticamente citato fin qui, le esperienze che si vanno sviluppando in Italia sono numerose, qualificate e diffuse praticamente su tutto il territorio: in Abruzzo, in Toscana, in Emilia Romagna, in Veneto, in Campania, nel Lazio, in Piemonte, solo per citarne alcune. La proposta di Balint incontra un terreno favorevole, risponde a un bisogno diffuso fra i medici di medicina generale e ben presto trova altrettanto favore in altri ambiti professionali (Luban-Plozza e Pozzi 1986): medici specialisti, infermieri, psicologi, assistenti sociali, educatori, insegnanti (Ancona e Minervino 2004). In pratica tutto l’ambito delle professioni di aiuto si mostra essere l’insieme privilegiato per ricevere da una formazione con il GB una risposta efficace al bisogno di competenza relazionale (Minervino 2003).
Non è certamente solo l’Italia a rispondere con tanto favore alla proposta che Balint fa pubblicando con il suo libro l’esito della ricerca con i medici inglesi e andando in numerosi paesi d’Europa e negli Usa a fare conferenze e a condurre gruppi dimostrativi. Nel gennaio del 1970, pochi mesi prima della sua scomparsa avvenuta il 31 dicembre di quell’anno, su una rivista medica francese Balint scriveva: “Questo metodo di formazione, avviato grazie all’aiuto di 14 colleghi fra il 1953 ed il 1955, è ora saldamente definito. Esso si è rapidamente diffuso in Europa. Siamo attualmente in contatto con colleghi impegnati nello stesso lavoro in Olanda, Germania, Francia, Svizzera, Svezia e Norvegia. Interessante rilevare che gli USA siano stati molto lenti nel seguirci. Nonostante già da molti anni sia stata riconosciuta l’importanza di una adeguata formazione psicologica per i medici generici, questa formazione avviene ancora in maniera tradizionale attraverso lo studio di casi clinici. Uniche eccezioni New Orleans, Saint Louis e, soprattutto, la clinica Staunton dell’Università di Pittsburgh” (Balint 1970).
La Francia dà subito grande rilievo alla proposta di Balint. Balint ha già da tempo importanti contatti con il mondo della psicoanalisi francese e la cultura medica di quel paese è fin dagli anni 50 attraversata da nuovi concetti di malattia che derivano dall’influenza della cultura psicoanalitica (Ricaud 2000).
Autorevoli esponenti del mondo psicoanalitico francese si attivano per formarsi al GB e per formare al GB: Emile e Ginette Raimbault accettano l’invito di Balint a recarsi a Londra per formarsi alla conduzione dei gruppi e in seguito altri, fra cui Michel Sapir, che cito per la grande influenza che ha avuto sullo sviluppo del movimento balintiano in Italia (Sapir 1975).
E’ dunque naturale che tale risonanza e diffusione internazionale producano la creazione di una federazione delle varie società e associazioni Balint che vanno nascendo in diversi paesi.
E’ un progetto che nasce fin dal primo Congresso Internazionale delle Società Balint (Londra 23-25 marzo 1972), ma che deve aspettare qualche anno perché si risolvano alcune questioni di conflitto che sempre insorgono quando si crea un’istituzione. La Federazione Internazionale Balint nasce dopo una riunione ufficiale tenutasi a Bruxelles nel maggio del 1974 e la sua fondazione porta la data del 27 ottobre 1974 e da allora organizza con una cadenza quasi biennale un Congresso che riunisce le varie società nazionali e mantiene aperto il dibattito e il confronto fra le varie esperienze nel mondo con un interesse che è rimasto piuttosto vivo (http://www.balintinternational.com ).

Forse in Italia tale interesse si è andato affievolendo nel corso di questi ultimi anni, sebbene le società e i gruppi citati siano ancora in attività e mantengano programmi e proposte formative con il Gruppo Balint. La sensazione è quella che fino alla fine degli anni ‘90 l’offerta formativa con il GB e la domanda s’incontravano con più facilità e i gruppi in attività fossero abbastanza diffusi. Nel corso di questi due decenni molte sono le cose che sono cambiate nell’ambito socio sanitario e fra questi cambiamenti si trovano di certo le ragioni di questa pausa. Non credo che si tratti di una caduta d’interesse rispetto alla questione della formazione alla relazione con il paziente, ma piuttosto di una situazione di contesto all’interno delle quali le professioni di aiuto si ritrovano a lavorare. Questa risulta così radicalmente cambiata da rendere necessarie alcune attente considerazioni da parte di chi si fa portatore di una tale proposta di formazione. Tali cambiamenti sono responsabili di un deterioramento della qualità della vita professionale degli operatori e di una forte insoddisfazione dei pazienti. Una situazione quindi che aumenta la forza della proposta formativa del Gruppo Balint.
Su un aspetto dei cambiamenti di contesto vale la pena dedicare un certa attenzione: quello del tempo. Ho ricevuto lo spunto per le considerazioni sulla questione legata al tempo dalla lettura di un editoriale apparso su un quotidiano (Bruni 2013).
Nell’editoriale si leggeva che l’uso relazionale del tempo, cioè la quantità di tempo passata insieme ad altri per il consumo di beni come l’intrattenimento è decisamente in calo, mentre si incrementa un consumo solitario in cui il tempo trascorso non è condiviso con altri. Ciò comporta la perdita del bene relazionale, un bene che dà un grande valore aggiunto a molte merci, come per esempio vedere un film.
Per capire cosa c’entra tutto ciò con la questione dell’attualità e del futuro del dispositivo relazionale nell’ambito delle cure noi possiamo e dobbiamo considerare la cura come una merce.
In quanto tale ha dei costi ma ha anche degli effetti su chi usa quella merce acquistandola o essendone oggetto. Ancora, in quanto merce è oggetto di produzione e quindi necessita di apparati, organizzazioni, persone che producono quella merce.
Prima dell’epoca della medicina e della sanità tecnologica, la cura era una merce, un bene che si accompagnava al bene relazionale e ciò le dava un valore aggiunto di grandissima rilevanza e molto apprezzato tanto da chi produceva e vendeva le cure quanto da chi le riceveva.
Il passaggio a una medicina e una sanità tecnologica ha sicuramente comportato un incremento del bene-merce-cura nel senso della sua maggiore disponibilità a dispetto della perdita del bene relazionale.
L’incremento notevolissimo di tecnologia e di conoscenze ha avuto sulla merce-cura l’effetto di una diminuzione dei suoi costi con il vantaggio di rendere sempre più disponibili cure a sempre più persone per patologie anche sconosciute un tempo o, se conosciute, meglio curate. È dunque un aspetto di salute pubblica importante poter considerare che l’accesso alle cure è divenuto sempre più facile a popolazioni che un tempo ne erano escluse.
Ma la perdita del bene relazionale dal bene cura ha comportato una serie di fenomeni negativi evidenti almeno quanto quelli positivi cui prima ho fatto cenno.
La perdita del bene relazionale dalla merce-cura è un fenomeno che comporta l’isolamento, la perdita di rapporti umani e il suo consumo in solitudine.
A ciò va aggiunto che l’assenza del bene relazionale dalla merce-cura comporta una mancanza di ascolto e di solidarietà, una mancanza di sostegno alla persona, un incremento della frustrazione in chi è oggetto di cura ma anche un incremento della frustrazione in chi è produttore della cura.
Se si abbassa il costo della cura e il costo del tempo (che è un costo del bene relazionale) resta immutato, quest’ultimo costo si innalza a dismisura.
Il costo del tempo nel corso degli anni non è mutato. Un’ora insieme agli amici costa un’ora come 20 o 30 o 40 anni fa. Così vale per un’ora passata in famiglia, per un’ora passata con i figli, per un’ora passata al cinema, per un’ora passata col paziente.
Il costo “tempo” legato al bene relazionale è quindi più pesante che non anni fa in virtù di un effetto relativo e non certamente di un effetto assoluto.
In più è sempre più cresciuto il peso dell’organizzazione, dei mezzi di produzione della cura anche quando l’erogatore della cura è un singolo individuo (vedi la medicina generale).
Non si può intervenire sul decremento dei costi della cura-merce perché questo è un dato acquisito, storico, portatore di vantaggi benché abbia un ruolo pesante nel perdita del bene relazionale.
Bisogna piuttosto trovare strategie che portino a un’azione sull’organizzazione dei circuiti di produzione del bene cura come merce maggiormente disponibile alle persone ma che per la mancanza del bene relazionale diventa meno efficace, meno efficiente, di minor qualità.
Parlo della possibilità di arrivare a una esperienza formativa sui singoli solo dopo essere intervenuto sull’organizzazione in cui il singolo è inserito.
Da una relazione medico paziente che esauriva il setting dell’erogazione delle cure siamo passati ad una relazione medico paziente che non si è certo dissolta ma sicuramente si è diluita in un contesto organizzativo di varia complessità.
E il contesto organizzativo non si sottrae alle regole relazionali cui guardiamo quando ci occupiamo della relazione medico paziente.
Il focus resta sempre la dimensione relazionale tra due individui uno nella funzione di terapeuta, di medico, d’infermiere e uno nella figura di paziente.
L’intima natura di questa relazione resta universale nelle sue componenti più profonde perché si rifà ad una dimensione di interscambio umano seppure declinato in un ambito professionale.
Quello che bisogna prendere in considerazione è la moltiplicazione di questo dato universale in una situazione complessa dove le relazioni che costruiscono un’organizzazione costituiscono una rete importante e condizionante la relazione col paziente (Minervino 2014).

Dalla prima edizione inglese del libro di Balint a oggi si è avuta una favorevole accoglienza della sua proposta formativa, una diffusione internazionale notevole anche in Paesi con culture molto diverse tra loro il che fa pensare che il suo contenuto si basi su contenuti universali.
Tale diffusione e l’applicazione del metodo formativo a diverse professioni rispetto ai medici di medicina generale ha posto diverse questioni che sono ancora oggetto di dibattito, a volte anche molto conflittuale, sul metodo, sulle sue variazioni, sull’opportunità di considerare tali variazioni all’interno di una metodologia che dovrebbe mantenere una sua “purezza”.
Per esempio, in Francia si è andata sviluppando un’esperienza che associa lo psicodramma al Gruppo Balint sotto la spinta di Anne Cain. Lo sviluppo di tale iniziativa arriva fino alla costituzione di una società indipendente, l’Association Internationale du Psychodrame Balint (AIPB) con sede a Marsiglia, ma il movimento pare affievolirsi molto dopo la morte, nel 1994, della stessa Cain. Anche Sapir aveva associato al Gruppo Balint lo psicodramma, ma soprattutto la sua tecnica di rilassamento analitico. Boris Luban Plozza, in Svizzera e nell’ambito della sua attività negli Incontri Internazionali di Ascona, aveva sviluppato un modello che chiamò “Gruppi Monte Verità” e che metteva nello stesso gruppo medici, pazienti, familiari, infermieri creando una situazione di condivisione dell’aspetto relazionale attraverso punti di vista e vissuti molto diversi ma complementari (Luban-Plozza e Minervino 1994). Leonardo Ancona aveva inserito l’esperienza del GB nell’ambito della più ampia attività di gruppo implementando gli aspetti terapeutici del lavoro in gruppo.
L’altro sviluppo è stato nella direzione dell’applicazione del Gruppo Balint nell’ambito delle istituzioni sanitarie, comprese quelle ospedaliere, cosa che ha posto diverse questioni: la valutazione della motivazione dei partecipanti, la composizione mista da un punto di vista delle professioni, la appartenenza alla stessa équipe di lavoro, la gratuità della partecipazione (solo per citarne alcune).
Ma anche altre professioni fuori dall’ambito sanitario hanno fatto esperienze di formazione con il Gruppo Balint, soprattutto insegnanti (Ancona e Minervino 2004) e operatori del mondo del volontariato (Minervino 1998).
Si tratta di applicazioni di un metodo che paiono essere del tutto naturali, visto che il bisogno di una migliore comprensione delle implicazioni emotive e relazionali non è certo una esclusiva dei medici di medicina generale.
Ma il metodo, come il libro testimonia, nasce da una ricerca in un preciso campo di applicazione: quello della medicina generale. Con alcune caratteristiche precise: omogeneità (solo medici di medicina generale), autofinanziamento (costo a carico dei partecipanti), regolarità (una seduta di gruppo a settimana), durata nel tempo (non occasionalità degli incontri), setting privato e non istituzionale, conduzione del gruppo con uno specialista addestrato in maniera specifica allo scopo, finalità formativa (e non terapeutica), spontaneità dell’esposizione del caso, assenza di rapporti gerarchici fra i componenti del gruppo, obiettivo del lavoro del gruppo (apprendere dall’esperienza le componenti emotive ed affettive che si attivano nella relazione professionale per riconoscere e meglio utilizzare il ruolo della personalità del medico nei processi di cura).
Gli sviluppi cui ho fatto cenno prima hanno creato esperienze che si sono distanziate, per un verso o per un altro, dagli elementi originari prima descritti, creando dibattiti, discussioni, conflitti e divergenze anche accentuate fra “puristi” e “contaminatori”.
Si è così giunti a una sorta di compromesso utilizzando una distinzione fra “Gruppi Balint” e “Gruppi alla Balint”.
Fra tutte le esperienze fatte nel tempo, alcune possono essere indicate come improprie nell’utilizzo della metodologia del Gruppo Balint. Ma tante altre, pur con una serie di scostamenti dagli elementi originari, scostamenti descritti, motivati e con appropriati aggiustamenti della tecnica, rappresentano legittimamente una continuità con lo spirito, lo scopo e il metodo del Gruppo così come Balint lo intese, lo sperimentò e lo diffuse.
Va indicata qual è la base, l’elemento fondamentale e costitutivo del Gruppo Balint: la relazione e l’incontro fra medico e paziente che, dall’universo del genere relazioni umane entra nella specie delle relazioni professionali, mantenendo le caratteristiche che fondano le prime ed acquisendo le caratteristiche che ne fanno specie.
Dell’universo del genere relazioni umane mantiene l’evidenza che è la persona nel ruolo di paziente che incontra la persona nel ruolo di medico. Che l’incontro fra le due persone crea una relazione che sarà caratterizzata da una serie di elementi affettivi, emotivi, comportamentali, cognitivi, la cui fenomenologia potrà essere in parte consapevole e in parte inconsapevole. Che tale fenomenologia non è una variabile indifferente sulla qualità dell’incontro fra le due persone e che la natura e le dinamiche della relazione hanno un effetto importante sulle due persone.
In questo ci sono un’universalità ed una base naturale che fanno vedere quali siano i problemi che derivano quando dal genere relazioni umane si passa alla specie relazioni professionali: oltre i sintomi della malattia, cosa porta il paziente nell’incontro col curante e cosa accade nella relazione da un punto di vista affettivo ed emotivo ad entrambi gli attori, cosa di questi accadimenti è a carico del curante e come condizionano le risposte professionali e come influiscono sui risultati delle prestazioni, come incide tutto ciò sulla salute del paziente e su quella del curante e qual è il costo della professione?
C’è anche da sottolineare che il salto dal genere alla specie comporta la necessità che mentre nel primo è possibile utilizzare quanto di spontaneo e naturale sopravviene nel regolare i fenomeni relazionali, tale “libertà” è decisamente limitata nella seconda, trattandosi di un campo professionale dove vigono aspetti contrattuali vincolanti (per esempio, non si può mandare a quel paese una persona nel ruolo di paziente che risulta molto antipatica). E questa è una delle prime caratteristiche della specie, cui si aggiungono quella della specificità dei ruoli, delle diverse responsabilità, delle diverse competenze e che nel loro insieme vanno a definire l ‘ambito professionale in cui la persona nel ruolo di medico (di psicologo, infermiere, ecc.) incontra la persona nel ruolo di paziente (o di altro nel caso di professioni non sanitarie).
Balint ha avuto il merito di mettere le mani su una materia così complessa e delicata, intuendo l’importanza dell’esito della ricerca con i medici, evidenziando con l’esperienza quanto dalla psicoanalisi potesse trarre l’uomo per meglio svolgere la propria professione senza per questo sottoporsi a un percorso di cura psicoanalitico e senza snaturare la natura della propria professione (continuare a fare il medico di medicina generale e non lo psicoanalista taroccato) e ha dimostrato che ciò è concretamente possibile e con ottimi risultati evidenti e misurabili.
L’applicabilità dei risultati della ricerca e dell’esperienza di Balint e dei suoi colleghi medici dello storico gruppo di Londra dei primi anni ‘50 e di tutto il movimento che ne derivò non è da considerare strettamente limitata al campo della medicina generale o al campo delle professioni sanitarie, dato che l’oggetto dell’applicazione del metodo messo a punto da Balint non è appannaggio esclusivo di una professione (i medici di famiglia, nel nostro caso), ma è condiviso da tutte quelle professioni che hanno nella relazione una componente fondamentale (tutte le cosiddette professioni di aiuto, per esempio).

Non credo quindi che sia in discussione l’attualità del risultato della ricerca di Michael Balint e l’utilità del metodo che ne è derivato, il Gruppo Balint.
La lettura del libro “Medico, paziente e malattia” costituisce ancora uno stimolo di grande forza e renderlo disponibile curandone, finalmente, una nuova edizione avrà il merito di far avvicinare molte persone alla testimonianza dell’esperienza che ha dato origine a uno dei fenomeni più interessanti nell’ambito della formazione in medicina e in psicologia le cui potenzialità restano cariche di vitalità.
Rappresenterà anche un forte stimolo per tutti quelli che hanno responsabilità nell’ambito della formazione: i formatori, in primo luogo, che dovranno fare molti progressi nel produrre migliori occasioni d’incontro fra la proposta formativa del Gruppo Balint e l’enorme platea di potenziali fruitori; i gestori dei sistemi di produzione delle cure, che dovranno fare molti progressi per spostare l’attenzione verso una organizzazione “centrata sulla persona” e non solo verso una cura “centrata sulla persona”, perché non è possibile la seconda senza la prima; i garanti della qualità, a tutti i livelli, sia dal punto di vista di chi eroga che di chi riceve le cure, che dovranno fare molti progressi per spostarsi da percorsi virtuali di valutazione a percorsi più vicini alla realtà materiale dell’agire professionale.
Rivitalizzare un movimento che si occupa della qualità della relazione, seppure nell’ambito non secondario delle professioni d’aiuto, è anche un fatto politico e culturale di cui la nostra epoca ha grande bisogno e la cui mancanza pesa su ognuno di noi, quotidianamente.

Bibliografia

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