14. Counseling

Consensus | Counseling

 

Gli AA stranieri che parlano di counseling si riferiscono a quanto accade nelle loro strutture specifiche (tipo “primary care” e, appunto, “counseling center”) simili al nostro “consultorio” che però è un termine riduttivo (tipo “quasi ambulatorio”).

All’estero, quello del counselor è un ruolo istituzionale (tipo medico-di-guardia).
NOTA – L’apparente semplicismo di questo paragrafo 14, insolito per un documento ufficiale, vuol dare un aiuto sostanziale al medico desideroso di ottimizzare il suo lavoro quotidiano con una “psicologia” che non è poi tanto difficile come potrebbe sembrare.

14.1

Per counseling s’intendono l’arte e la tecnica non di dare consigli ma di guidare il p. a trovare da sé la soluzione non più giusta (sarebbe giudizio di valore) né ideale (sarebbe utopia) ma più economica alla propria salute mentale e soprattutto produttiva ai fini di una maturazione che lo renda capace di autogestirsi.
Counseling significa aiutare il cliente a crescere nella libertà e nella responsabilità (Van Kaam). E’ un po’ come dare un pezzo di pane all’affamato, ma anche insegnargli a seminare il grano.
Consigliare è sempre controproducente: l’uomo è, di regola, troppo presuntuoso per accettare consigli. Lo riterrebbe una sconfitta o una violenza. Preferisce sbagliare, ma farlo da sé.
Il segreto del successo nella tecnica del counseling è nella frase “vediamo (noi: io e te, io sono disponibile a vagliare con te tutte le soluzione possibili) che cosa puoi fare” (tu, il pilota della tua esistenza sei tu, a scegliere e decidere sei e resti solo tu).
Oltre tutto, il mettersi a dare consigli

14.1.a

è poco gradito al p. che si sente trattato come un bambino o un ipodotato da parte di uno che, viceversa, sembra sentirsi accreditato di poteri sovrumani, tra il magico e il culturale, per cui vede più chiaro ed è infallibile

14.1.b

sa di paternale, patriarcale, apostolico (13): atteggiamenti inaccettabili nella cultura moderna, che è democratica, laicizzata, e contraria ad ogni autoritarismo

14.1.c

allontana il p., che si sente ancora una volta incompreso quando invece ha tanto bisogno di sentirsi approvato e sostenuto o almeno rispettato. Se non altro all’inizio, il p. ha sempre ragione.

14.2

Il counseling è la forma più elementare di psicoterapia anche se non certo la più semplice. Richiede cultura specifica, esperienza (training e supervisione), padronanza del transfert, immunità al coinvolgimento.
Per il medico generico può essere sufficiente aver realizzato quella “limitata ma importante” modificazione della personalità ottenuta frequentando con profitto un’esperienza di Gruppo Balint e affinando quella disponibilità all’ascolto che è alla base del counseling inteso come alleanza terapeutica (76).

14.3

Il tipo di counseling accessibile e auspicabile, a livello di medico non psicoterapeuta, è solo l’ottimizzazione del tradizionale intervento, da vecchio saggio, del mitico medico di famiglia.
E’ una tecnica di sostegno in equilibrio tra cultura e buon senso,
è l’interpretazione ora psicodinamica ora simbolica dei sintomi per offrire al p. utili spunti di riflessione,
è il suggerimento a modificare in qualche modo sia il proprio stile di vita e di lavoro, sia i propri rapporti con l’ambiente familiare e sociale,
è l’invito a fare un inventario sereno e aggiornato delle proprie potenzialità.
Esempi. Se continua con questo ritmo, tra un anno o due avrà un infarto.
Le sue crisi di bulimia sono simboliche poppate quando l’ansia era fame e l’ansiolitico il latte materno.
Il vomito del suo bambino ogni mattina (mai di domenica) è un “rigetto” della scuola o forse anche di qualche altra cosa parimenti imposta dai genitori.
I suoi attacchi di panico con relative fughe al pronto soccorso sono reazioni ancestrali alla paura; siamo uguali all’uomo delle caverne che, sentendo un fruscio, temeva di essere vicino a una belva sicché o era lui ad ucciderla e mangiarla o era la belva a uccidere e mangiare lui; quale sarà il fruscio che lei avverte e quale il pericolo che la sconvolge?; intanto sappia che il cuore sembra impazzire solo per darle la forza di affrontare la “belva”, ma non è malato.

14.4

Un caposaldo del counseling è la spiegazione. Dice Meltzer (5) che la chiave di un intervento efficace in psicosomatologia è primo spiegare, poi spiegare, infine spiegare.
Per Fava la spiegazione è il primo dei quattro ingredienti terapeutici in psicosomatica, oltre a rassicurazione, supporto, esame obiettivo.
Al p. bisogna spiegare tutto, con calma discorsiva, senza paroloni né atteggiamenti cattedratici, quasi suggerendo di riflettere se “quel” caso rassomiglia a quanto scritto su certi libri.
Il p. che non vuole farmaci perché è solo “stressato” deve sapere che lo stress è la somma di un evento stressante (stressor) e di un individuo che “si lascia stressare” (stressed). La pioggia cade su tutti, ma si bagna solo chi non apre l’ombrello.
Il p. che soffre di attacchi di panico (DAP) è alla ricerca di improbabili “perché” conflittuali, ma si rasserena se gli si mostrano immagini di PET raffiguranti l’arousal di differenti masse di neuroni (ce ne sono cento miliardi: impossibile che si attivino tutti insieme) a seconda che guardiamo o ascoltiamo, ecc., e quando scatta il panic attack, il quale dunque è un fatto biologico, cellulare, trattabile perciò solo con farmaci.
Il p. stufo di sentirsi dire che “non ha niente” si rassicura (e dona compliance) al sapere che non ha niente di “tradizionale” (febbre, ittero, tumore) ma “ha” qualcosa di natura psicologica, altrettanto curabile anche se in modo “non” tradizionale (psicoterapia).
L’ipocondriaco resta spiazzato a sentirsi dire che un medico non avrebbe mai i disturbi che lui lamenta perché, conoscendo l’anatomofisiologia, non darebbe peso a quei doloretti o a quei “fastidi”.
Certi sintomi sono telegrammi dell’inconscio. Non basta accorgersi che è arrivata una busta con su scritto “telegramma”. E’ necessario aprirla e leggere il messaggio.
ALTRI CONSIGLI
La vacanza è irrinunciabile, sia in estate sia nei week-end, e deve divertire nel senso etimologico della parola: “dis-vertere” = volgere altrove (l’attenzione, gli interessi).
Crearsi qualche hobby, meglio se “sociale”, tipo carte, ballo, gite.
Frequentazione sociale: famiglia, amici, club, volontariato. Di solitudine ci si può ammalare e persino morire.
Concedersi qualche pausa di solitudine attiva, riflessione, spiritualità, rapporto con la natura.
“Fronteggiare” i problemi (coping) piuttosto che “affrontarli”, termine che evoca intenzioni di lotta, persino inumani eroismi, anche pericolose pretese di onnipotenza. Dicono i cinesi: se per un problema il rimedio c’è, perché te la prendi? E se non c’è … perché te la prendi!
Pensare in positivo: un bicchiere a metà è ancora mezzo pieno.
Andando a letto, lasciare i problemi nelle scarpe, come dicono gli scandinavi.
Coltivare in ogni modo un “ottimismo intelligente”, che non è illusione né faciloneria, bensì concretezza, autostima, fiducia nelle proprie risorse (self-efficacy) e un buon umore (con un po’ di umorismo) che tiene lontana la depressione e tutto ciò che essa comporta, somatizzazioni comprese, mentre “il riso fa buon sangue” (41).
Calma: ansiolitico ante litteram. L’igiene mentale sottoscrive la filosofia spicciola del “domani è un altro giorno”, “à da passà ‘a nuttata”, “ci penserò domani”.
ALTRI DIVIETI
Eccessi d’ogni tipo: sport, cibo, caffè, vino, sesso, velocità, TV. L’uomo è fatto per camminare non per correre: camminando può fare chilometri, se corre si stanca presto.
Solitudine: proibito cristallizzarla, assurdo considerarla inevitabile (8), parrocchie, circoli (anche per anziani), attività filantropiche, al limite un cane o un gatto (pet-therapy (45)), sono “agenzie di sicurezza”.
Legami sociali troppo intensi: investendo troppo su un’unica persona ci si isola e si rischia traumatiche delusioni; il dilemma del porcospino (16) insegna a saper trovare lo spazio giusto per scambiarsi calore senza pungersi.
Odio, vendetta, rancore, invidia: i virus dell’anima. Perdono, pazienza, benevolenza, adattabilità saranno pure virtù da santi ma, di certo, sono i caposaldi della salute mentale.
Non lasciarsi coinvolgere dai problemi dei familiari: il medico “si prende cura” di ogni p. ma non si mette a piangere se il p. piange.
Mai dire ormai. Mai dire purtroppo. Due parole che si oppongono al cambiamento, all’adattamento, alla programmazione, alla crescita.

14.5

Altra regola consiste nell’invitare il p. a privilegiare concretezza e realtà.
Al p. che si definisce timido, incapace, complessato, succube, va iniettata fiducia sottolineando tutto ciò che ha effettivamente fatto di positivo (studi, conquista di un partner, famiglia, lavoro, sport, ecc.). Contano i fatti più che le ipotesi. Occorre gratificarlo per ogni cosa fatta bene, e compensare le sue eventuali sventure valorizzando ogni aspetto positivo della vicenda, anche se si tratta solo di dettagli.
Occorre anche “smontarlo” ridimensionando eventuali disturbi tanto drammaticamente riferiti quanto clinicamente insignificanti (come i “tremori interni”, i vari “come se”, ecc.).
Non accettare mai di discutere un argomento che il p. propone facendolo precedere dalla parola “se”. La parola “se” presuppone più possibilità; per ogni possibilità si apre un’altra graffa; le possibilità diventano infinite. Discutere solo ciò che è accaduto.
Parimenti va bloccata sul nascere la pur frequente affermazione “io non accetto… “: un lutto, una malattia, la vecchiaia, il vedersi brutti o grassi, la condizione sociale o sessuale, ecc. Ci sono cose che non abbiamo comprato e di cui quindi non siamo responsabili. “Non accettare” significa precludere ogni possibilità di adattamento, di coping, di sopravvivenza serena. Qualunque realtà va sempre accettata: se sgradita va fronteggiata al meglio, o almeno alla meno peggio, sempre. Saggiamente gli inglesi dicono hope and cope (= abbi fede e prova).

14.6

E’ bene non prendersi mai alcun merito, usando frasi tipo “io l’avevo già capito da un pezzo”, “anch’io farei così”, ecc. E’ viceversa opportuno prendere su di sé il peso del dubbio, liberandone così il p., dicendo, p.es., “credo che questa sia la soluzione migliore, mi pare che lei abbia ragione, forse fa proprio bene a decidere così”.
In effetti, in un intervento psicologico tanto più si ottiene, quanto più si sa giocare di rimessa, in un’apparente passività: come l’ostetrico, che deve assistere al parto con le mani dietro la schiena, per evitare che il suo strafare faccia si che, tra madre e figlio, si salvi a malapena solo il padre (come diceva Cattaneo). Il counselor (76) dovrebbe parlare meno di quanto parlino i suoi clienti: “se non sapete cosa dire, non dite niente”.

14.7

Il p. va seguìto e non guidato. Il p. va trattato come un adolescente e non come un bambino: libero di tentare, invitato a fare esperienze, per poi discuterne con calma.
La differenza tra i due termini è sostanziale in pedagogia, dove si invitano i genitori a cambiare comportamento quando i figli arrivano alla pubertà.
Naturalmente il p. va anche corretto: perciò, fin dal primo incontro è bene chiarire che il p., se è in crisi (altrimenti non starebbe a parlare con un medico), deve cambiare qualcosa, tenendo conto della convenienza e non della razionalità.
Non è facile, ma provare non costa molto. L’importante è rifiutare ogni pregiudizio, tipo “io sono fatto così” ed altre dichiarazioni simili e parimenti paralizzanti o almeno antieconomiche.

14.8

Setting adeguato. Nell’intenzione di non dare nulla per scontato è bene riflettere un momento pure sul setting, anche perché non c’è detto più contestato dell’abito che non fa il monaco. Il risultato del counseling è influenzato anche da vari particolari tutt’altro che insignificanti.
Look appropriato: elegante ma mai eccessivo: né casual né raffinato.
Studio silenzioso, confortevole, non dispersivo.
Possibilità per il p. di scegliere tra due poltroncine dove sedersi: c’è chi vuole avere la finestra alle spalle.
Puntualità.
Atteggiamento convenzionale: né scostante freddezza né esagerata calorosità.
Disponibilità gentile ma limitata. P.es.: “posso telefonarle?” “Quando vuole … tanto non mi trova mai (sto qui solo quando ricevo e, mentre visito, non prendo telefonate) … però mi trova sempre (lasci detto alla segretaria oppure alla segreteria telefonica, che è accesa anche di notte e di domenica, e poi io la richiamo appena possibile”.
Evitare interruzioni o distrazioni. Non prendere telefonate, non sfogliare la posta, non farsi portare un caffè. E’ concesso solo accendersi una sigaretta (offrendola al p.).
Tenere a disposizione un pacchetto di fazzolettini: a volte il p. si mette a piangere.
Commiato soft, evitando formule fastidiose tipo “arrivederci: il tempo è scaduto”. Meglio dire: “su questo argomento è bene rifletterci un po’: ne riparleremo nella prossima seduta”.