Psicosomatica

La rivista Mente e cervello, nel numero 69 del mese di settembre, strilla in copertina il titolo “PSICOBALLE: istruzioni per smontare i miti della psicologia popolare”, presentando nelle pagine da  28 a 35 la traduzione di un lavoro degli psicologi  S.O. Lilienfeld, S. J. Lynn, J. Ruscio e B. L. Beyerstein dedicato a questo tema.

Una tematica che i qualche modo richiama la tematica  del  prossimo 23° Congresso della SIMP dedicato a  “il pregiudizio e le terapie”.
Se infatti il termine “psicoballe” si presta giornalisticamente a catturare l’attenzione ela curiosità del lettore, mentre “pregiudizio”   inteso, secondo il vocabolario quale ”idea, op inione concepita sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali senza convinzioni diretta dei fatti, delle persone,delle cose, tale da condizionare fortemente le valutazioni e da indurre in errore”, entrambi possono indicare l’opportunità o il desiderio di liberarsi o, almeno mettere in discussione aspetti che andrebbero invece rivisti e ridiscussi.
Gli autori dell’articolo sostenendo come la psicologia popolare sia “uno stupefacente miscuglio di fatti e false credenze” citano alcuni significativi esempi di quelli che ritengono essere “alcuni dei miti più diffusi sulla mente e il comportamento degli esseri umani”, cercando di individuarnealcuni dei motivi che sono all’origine di questi concetti.
Tra le (con)cause attuali fanno anche riferimento a  “la “popolarizzazione dei risultati delle ri­cerche di psicologia e neuroscienze, la cosiddetta .”psicologia popolare” (che) è di­ventata parte integrante della nostra società, e (che con) i suoi aforismi, le sue verità e mezze veri­tà accompagnano la nostra quotidianità”.
Osservano anche come sia sufficiente fare “un giro in libreria o in edicola per trovare decine di libri dedicati ad analizzare la perso­nalità, spiegare l’intelligenza, offrire soluzio­ni per i problemi nei rapporti amorosi e fa­miliari, per non parlare delle riviste e delle rubriche televisive che ci propinano monta­gne di consigli per districarci lungo i tortuosi sentieri della vita”.ritengono anche che “molte di queste informazioni sono accurate e utili.

Tuttavia, tanti libri e artico­li di psicologia popolare sono infarciti di quella che definiamo “psicomitologia”, un corpus collettivo di cattiva informazione sulla natura umana.(e che).
Senza la guida di uno studioso del settore in grado di separare la realtà dalla finzione psicologica, il gran­de pubblico può quindi trovarsi alla mer­cé dei guru dell’auto-aiuto, degli ospiti dei talk-show televisivi e degli autoproclamatisi esperti di salute mentale, molti dei quali di­spensano informazioni e consigli psicologici di dubbia natura”.

Gli autori si riferiscono al mondo statunitense, ma sembra perfettamente adattarsi anche al nostro.
Per fare alcuni esempi di quelli che indicano come i miti più diffusi della psicologia popolare, portano alcuni citano alcuni casi   di convinzioni che ritengono essere parzialmente, o interamente, false.
Ne riportiamo sintetizzate, alcune che hanno maggior riferimento all’ambito psicosomatico e, tra queste:
quella relativa alla convinzione (pregiudiziale?) che sfruttiamo sol­tanto il 10 per cento delle nostre capa­cità intellettive.
Gli autori ritengono che tale idea sembri “provenire in parte da alcune cattive interpre­tazioni della ricerca psicologica strombazzate da articoli e libri di psicologia spicciola.
Nel  caso specifico, un’interpretazione distorta di di­chiarazioni obsolete e ormai screditate secondo cui gli scienziati non avevano idea di che cosa facesse il 90% del cervello.
Ed ancora quella per cui   i nostri ricordi sarebbero registrazioni fedeli de­gli eventi, simili a quelli incisi su un nastro  o un DVD idea  forse derivata dal fatto che i nostri ricordi ci appaiono soggettivamente così rea­li per cui spesso ne accettiamo la veridicità sen­za farci domande.
In realtà, però, centinaia di studi hanno dimostrato che nel corso del tempo la nostra memoria è soggetta a note­voli distorsioni. E che nella percezione degli accadimenti il filtro affettivo personale gioca un ruolo molto importante.

Ma soprattutto gli autori si soffermano su alcuni miti della psicologia popolare che vogliono sfatare.
Il primo dei miti che vogliono sfatare è quello per cui “esprimere rabbia fa bene”.
Ricordano al proposito come spesso si senta dire che sfogare “la rabbia è più salutare che tenersela dentro” e sottolineano come: “oggi i mass media ci assicurano che la rab­bia è un mostro da tenere a bada scarican­do la tensione sfogandoci e togliendoci il peso dal cuore”.
Citano alcuni tipi di terapia che tendono ad “incoraggiano i pazienti a gri­dare, colpire cuscini o lanciare palle contro il muro quando si arrabbiano” e tra queste terapie quella della “ Terapia primaria di A. Janov, comunemente nota come “Terapia dell’urlo primario” (secondo la quale) “gli adulti psicologi­camente disturbati debbano urlare con tut­to il fiato che hanno nei polmoni, o sfogare altrimenti il dolore emotivo originario deri­vante dal trauma della nascita o da rifiuti o sofferenze dell’infanzia”.
Gli autori notano come, in realtà, “oltre quarant’anni di ricerche hanno dimostrato che, di fatto, manifesta­re la rabbia amplifica l’aggressività.
Mentre “altre ricerche indi­cano che dedicarsi a sport aggressivi, come il football americano, fa aumentare l’ostilità”.

Citano anche come J. Littrel psicologa della Georgia State University, i narevisione della letteratura abbia conclu­so che “esprimere la rabbia sarebbe d’aiuto soltanto quando questa manifestazione è accompagnata da una risoluzione costruttiva del problema o da una comunicazione volta a ridurre la frustrazione o la ragione immediata della nostra ira”.
Si domandano anche il perché della così ampia diffusione di tale “mito” ipotizzando  che probabilmente ciò sia dovuto al fatto che “attribuiamo il fatto di sentirci meglio dopo uno sfogo alla catarsi, invece che al fatto che quasi sempre la rabbia si placa spontaneamente” per cui
“in effetti, ci si sarebbe sentiti meglio semplicemente aspettando che l’arrabbiatura passasse da sola”.
E concludono suggerendo che la rabbia non sarebbe  “una belva da affrontare lasciandola libera di esprimersi”, ed ammonendo che  al contrario: “manifestandola si amplifica l’aggressività”.

Altro mito da sfatare sarebbe quello per cui Pensare positivo fa guarire dal cancro

Essi ricordano  che “dal 60 al 94 per cento di coloro che sopravvivono al cancro attribuisce la guarigione al proprio atteggiamento positivo” ed anche come “Diversi ma­nuali di auto aiuto sostengono che un atteg­giamento positivo può arrestare il cancro, o almeno rallentarne la progressione.
Ed anche che “olte donne guarite da un tumore sono d’accordo”.
Infatti “Secondo i sondaggi, dal 40 al 65 per cento di chi sopravvive al cancro ritiene che la malattia sia stata causata dallo stress, e tra il 60 e il 94 per cento pensa di essere gua­rito grazie al proprio atteggiamento positivo”.
Precisano però che “le prove scientifiche non confermano l’idea che l’ottimismo sia una panacea con­tro i tumori” e che   “La maggior parte degli studi non rileva alcun collegamento tra rischio di tu­more, stress ed emozioni” in quanto “In realtà, in diverse ricerche è stato osservato un rischio inferiore di tumore al seno tra le donne impegnate in professioni caratterizzate da uno stress relati­vamente elevato, rispetto alle donne che han­no lavori relativamente poco stressanti. Le ricerche hanno inoltre costantemente fallito nel tentativo di individuare un’associazione tra atteggiamento positivo e sopravvivenza al cancro.
Citano anche  la giornalista e critica sociale B. Ehrenreich che “si scaglia contro la “cultu­ra del cancro” che spinge le persone malate di tumore a credere che stare su di morale e ostentare allegria li guarirà o quanto meno li nobiliterà come esseri umani” e che . “incoraggia invece le donne colpite da tumore al seno ad adottare un atteggiamento di “rea­lismo vigile”, senza ricoprirsi di un cosmetico velo di allegria”.
Ricordano ancora che  “L’impotenza di una visione positiva di fronte a malanni fisici chiama in causa il valore medico dei gruppi di sostegno e l’as­sistenza emotiva che forniscono.
Anche se “studi preli­minari sembravano suggerire che la parteci­pazione a questi gruppi aiutasse a prolungare la vita” invece “una ricerca più recente e scienti­ficamente solida, riesaminata dallo psicologo J. Coyne e colleghi dell’Università della Pennsylvania, ha mostrato che gli interven­ti psicologici (compresi i gruppi di sostegno) non prolungano la vita dei malati di cancro, benché ne possano migliorare la qualità”.
Per cui “Chi è colpito da tumore può trovare sollie­vo fisico ed emotivo mediante cure mediche e psicologiche di qualità, stando vicino ad amici e familiari e cercando di dare un signi­ficato e uno scopo a ogni singolo momento della sua vita.
Può inoltre trovare conforto nella scoperta, ora ben consolidata, che il suo atteggiamen­to, le sue emozioni e le esperienze stressanti non sono in alcun modo responsabili della sua malattia”.
Altro mito ancora da rivedere è quello per cui Più vecchi uguale più tristi.
Per fare ciò gli autori partono da quel cliché che secondo cui le caratteristiche prevalenti e peculiari di una persona anziana sarebbero: la depressa, l’ira­scibilità, la solitudine, l’inattività  sessuale, la cattiva memoria.
Per verificare la (s)correttezza di tale convinzione utilizzano i risultati di diversi sondaggi e ricerche focalizzate su aspetti specifici.
Ad esempio In un sondaggio, il 65% de­gli studenti di psicologia si è dichiarato d’ac­cordo sul fatto che “la maggior parte delle persone anziane è solitaria e isolata”, e in un altro sondaggio il 64%  per cento degli studen­ti di medicina concordava che “le forme più gravi di depressione sono più comuni tra. gli anziani che tra i giovani”.
“Un gruppo di ricerca ha condotto un son­daggio tra adulti di età compresa tra 21 e 40 anni, oppure di 60 anni e oltre, interrogandoli sulla loro felicità e sulla loro valutazione del­la felicità provata in media da una persona di trenta o settant’anni.
I giovani adulti preve­devano che invecchiando le persone sarebbe­ro state sempre meno felici, “ma in realtà i più anziani sono risultati più felici dei giovani intervistati”.
I sondaggi a campione citati indicano anche che “i tassi di depressione sono più elevati nel­la  fascia di età compresa tra 25 e 45 anni”  e che “il gruppo complessivamente più felice è quello dei maschi di 65 anni e oltre”.
“In uno stu­dio su 28.000 cittadini statunitensi, un terzo degli ultra ottantenni riferiva di sentirsi “mol­to felice”, e i più contenti tra gli intervistati erano i più anziani.
Le probabilità di essere felici, in effetti, aumentavano del 5 per cento ogni dieci anni di età.
A sua volta la psicologa L. Carstensen, della Stanford University avrebbe dimostrato  dimostra che “in confronto alle persone più giovani, gli anziani ricordano con maggiore frequenza le informazioni positive piuttosto che quelle ne­gative, cosa che probabilmente spiega in parte la loro visione spesso sorprendentemente rosea della vita”.
Altri sondaggi citati sono quelli relativi alla presenza o meno del desiderio sessuale e da questi emerge che   “In un sondag­gio sulla popolazione degli Stati Uniti, oltre tre quarti degli uomini tra i 15 e gli 85. anni e metà delle loro coetanee hanno riferito di provare interesse per il sesso.
Inoltre, il 13% delle persone di età compresa tra i 57 e i 64 anni era sessualmente attiva, così come il 53% di quelle tra i 64 e i 74 anni.
Nel gruppo di età compreso tra i 75 e gli 85 anni, il 26% ha affermato di essere  sessual­mente attivo.
Altre indagini citate sono state intraprese a proposito della convinzione relativa al grave deterioramento delle capacità cognitive nel’anziano rivelandola come non veritiera, mentre  “si riscontra, è vero, una certa per­dita di memoria con il passare degli anni, in particolare si dimenticano alcuni dettagli e a volte sfuggono le parole mentre si parla”.
“Ma anche a ottant’anni, in assenza di gravi patologie che interessino il cervello, l’intelligenza generale e le abilità verbali non sono tanto peggiori di quanto lo fossero de­cenni prima”.
Inoltre, le ricerche indicano che in alcune attività creative, come la musica o la scrittura, molte persone producono le loro opere migliori intorno ai cinquant’anni o an­che vari decenni più tardi.
Abbiamo citato solo alcuni degli interessanti spunti contenuti nell’articolo, quelli che più hanno a che fare con  pregiudizi particolarmente riscontrabili nella attività professionale di tipo curativo  sui nel citato  Congresso della SIMP vi saranno possibilità di interessanti confronti.