XXV Congresso

Eugenio Borgna, primario emerito di psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara,libero docente in psichiatria dell’Università di Milano, certamente uno tra gli psichiatri di maggior valore del nostro paese ed autore prolifico e profondo di testi che affascinano e coinvolgono, non è solo un caro amico personale ma è stato apprezzato relatore in Congressi SIMP di Roma – Milano – Verona

Dal suo libro “L’arcipelago delle emozioni Feltrinelli 2001abbiamo stralciato alcuni significativi brani sull’anima ed il dialogo terapeutico.

“ …Non è possibile fare-psichiatria, vivere la psichiatria, se non si riflette sugli orizzonti dell’anima, sui “paesaggi dell’anima” (questo è il titolo di un bellissimo libro di Umberto Galimberti).
L’anima tende a oscurarsi nelle persone “normali”; mentre resta viva, anche se ferita e singhiozzante, nelle persone che si confrontino con problemi psicologici e con realtà di sofferenza.
Forse, anche in ciascuno di noi l’anima si fa orizzonte di esperienza e di conoscenza quando la sofferenza lambisce, o graffia, la nostra esistenza. …
Il linguaggio dell’anima non è il linguaggio del corpo, e non è nemmeno il linguaggio della ragione (della raison) astratta e cartesiana; e il linguaggio dell’anima tende a nascondersi, a sottrarsi agli sguardi avidi e agli sguardi rapaci dell’indifferenza e dell’apatia, dell’ebbrezza e della gelidità del cuore, della geometria delle lacerazioni e della crudeltà.
Come è definibile l’anima, e come è possibile avvicinarsi ai suoi confini di indicibilità?
….Seguendo i sentieri tracciati da Umberto Galimberti, vorrei indicare alcuni degli elementi indiziari che consentano di intravedere i paesaggi dell’anima:
“‘Anima’ è un nome universale e antico che nell’espressione greca psyché dice il soffio, il respiro, e nell’espressione latina anima traduce il vento (anemos).

[…] In ogni caso, certo, il linguaggio dell’anima non è quello del corpo.

[……. La parola, senza l’anima che la renda viva, non è terapeutica [….] Nel contesto di una cura (di una cura psicologica ma, almeno in parte, anche di una cura farmacologica) la parola è terapeutica nella misura in cui sia accompagnata da emozioni, che la rendano viva, e non sia immersa in un linguaggio tecnico (gergale).
Le emozioni di chi chieda aiuto non sono, e non possono essere, né nei loro contenuti né nella loro forma, quelle di chi intenda curare.

Ma ogni medico non può non cercare di condividere, e di fare proprie, le ansie e le tristezze del paziente: le ragioni della sua sofferenza.
Se questo avviene, cosa che ogni paziente intuisce immediatamente, si attenuano le dissonanze emozionali fra medico e paziente e la cura può svolgersi al di fuori di conflittualità accese.
In ogni caso, nell’incontro, in quello soprattutto che diviene incontro psicoterapeutico, c’è anche il rischio che si inseriscano forme inautentiche di discorso; e la malattia (la sofferenza), vorrei ridirlo, fa cogliere immediatamente una eventuale dimensione scenografica (artificiale) dell’agire medico.
Così, non si può non avere acuta consapevolezza di questo rischio di inautenticità che svuota le parole di senso e di terapeuticità in psichiatria ma non solo in psichiatria.
Quando in noi non ci sia spontaneità, e non ci siano risonanze emozionali sincere agli eventi e alle esperienze vissute che gli altri ci raccontano, è (forse) meglio tacere ed è meglio rinunciare, se la cosa è possibile, ad avviare, o a proseguire, un dialogo psicoterapeutico.
Come il nostro atteggiamento interiore, la nostra disponibilità ad ascoltare al di fuori di ogni pregiudizio teoretico, sia radicalmente importante nel rendere terapeutica una relazione fra paziente e medico, o nel renderla invece antiterapeutica, è esperienza che ciascuno di noi non può non fare in ogni incontro dialogico (psicoterapeutico) con un paziente: quando [questo] sia divorato, in particolare, da un’angoscia e da una tristezza neurotiche, o da una dissociazione e da una depressione psicotiche.
[…] Le modalità costitutive di ogni contatto emozionale, l’attenzione e la partecipazione, il sorriso e la commozione, le oscillazioni dello sguardo e del volto, non possono non adeguarsi (adattarsi) alle diverse situazioni che si vengono formando, e cambiando, di istante in istante nel corso dell’incontro:
E non devono, invece, immobilizzarsi e pietrificarsi rinnegando le ombre e le luci, le penombre e i chiaroscuri, di ogni umana situazione.

[……“ In una impostazione fenomenologica di discorso, la cura (una psicoterapia) ha un senso solo se, fra medico e paziente, abbia luogo un incontro dialogico: nel contesto del quale, sia pure confrontandosi con la propria interiorità e le proprie esperienze vissute, chi cura non possa non rendere testimonianza della propria partecipazione emozionale al destino di chi soffre e chiede aiuto.
Benché sia necessaria una distanza emozionale, che eviti ogni identificazione fra medico e paziente, una vicinanza emozionale [Stork 1965] è la condizione essenziale perché una psicoterapia abbia a svolgersi. [……]