10. Bioetica

Consensus | Bioetica

10.1

La verità al paziente è un argomento controverso: sempre, mai, secondo. Parlare? tacere? mentire?

10.1.a

Ad ogni costo.
E’ la tesi dei teologi (è doveroso preparare l’anima: “a morte subitanea libera nos Domine”. Papa Giovanni entrò in agonia dopo aver salutato i fedeli dicendo “sono pronto, ho già fatto la valigia”),
dei giuristi (l’uomo ha il diritto alla verità per ciò che lo concerne),
dei medici: negare la verità è tradire la fiducia del p.; la verità va detta con riserva (“forse morirai”: una falsa speranza è meglio di nessuna speranza), con tante riserve, ma va detta (98) anche per coinvolgere il p. in quest’ultima battaglia in cui la sicura sconfitta del corpo può coincidere con il successo dello spirito: agonia deriva da “agone” (= gara) e non esiste competizione senza la consapevolezza della lotta.

10.1.b

Mai.
E’ la tesi materialista che, non ammettendo l’aldilà, punta a sostenere la vita fino all’ultimo minuto, anche ricorrendo all’illusione più irragionevole.
Ma è anche la tesi di molti medici: mai fare del male, le bugie dei medici (come quelle delle donne, diceva Anatole France) sono sempre preziose, “non è cancro ma ulcera, passerà”. Oltretutto il p., più spesso che non si creda, già ha capito o almeno intuito (scoprendo, direbbe D’Annunzio, “la piaga e il destino”): se finge di non sapere è perché teme di essere abbandonato (56).

10.1.c

Secondo casi
Ci sono pazienti che desiderano essere ingannati ed altri che vogliono sapere. La verità fa male a un p. e bene a un altro: sta al medico giudicare caso per caso.
E’ un’altra grossa responsabilità del medico, un altro “momento” professionale in cui un minimo di formazione psicologica appare indispensabile.
La giurisprudenza attuale della Corte di Cassazione ribadisce il dovere dei medici di informare non solo su diagnosi, prognosi e terapie, ma anche sui possibili rischi e sulle alternative terapeutiche.
Questi principi sono accolti dal nuovo Codice Deontologico dei medici italiani del 1995, che garantisce il “rispetto dei diritti del paziente” (art. 17) e, nei successivi articoli 29 (Informazioni al paziente), 31 (Consenso informato), sancisce il riconoscimento della sua autonomia e partecipazione attiva al processo di cura.
Per mantenere la sua natura di atto medico, rivolto all’interesse del paziente, l’informazione deve realizzarsi nel più ampio contesto di una comunicazione umana dotata di empatia, capace di dialogo e di ascolto: momenti professionali, questi, che necessitano di una adeguata formazione psicologica (Lovera).

10.2

A favore dell’eutanasia è una “cultura del piacere e dell’utilitarismo” ispirata all’utopia di una società senza sofferenza, per cui è inutile vivere se la qualità della vita è troppo deteriorata. Ma l’uomo non è mai inutile, e non sarà mai un oggetto “usa e getta”. E il medico non potrà mai contraddire Esculapio e “propinare veleni”.
Contro l’eutanasia c’è il tecnicismo esasperato (accanimento terapeutico) per conservare in vita organi di un organismo ormai senza vita, in un ambiente di macchinari invece che di familiari.
In effetti c’è una sola eutanasia, anche se vi si distingue una forma attiva (atti commessi) ed una passiva (atti omessi). Il medico non può cercare alibi in giochi di parole: come deve rispettare la vita (birth control) deve rispettare la morte (death control).
Quinto non uccidere. Quindi è categorico il “no” ad ogni tentativo di legalizzare o depenalizzare o in qualche modo autorizzare l’eutanasia.
Per i medici poi, esiste un altro comandamento, suggerito dal buon samaritano: fare tutto il possibile per aiutare ogni patologia a alleviare ogni sofferenza, anche utilizzando farmaci e tecnologie capaci di rianimare o comunque di dilazionare il processo naturale dell’ineluttabile morte. Ma se il trattamento costituisce un’ulteriore sofferenza, se il medico valuta che non c’è una fondata fiducia nella riuscita, allora il cosiddetto “accanimento terapeutico” va evitato, con buona pace della medicina-spettacolo.
Pio XII, nel ’57, rispose di si alla domanda se sia lecito dare al malato un medicamento capace di alleviare il dolore ma di accelerare la morte. Quindi meno spazio ai rianimatori e più spazio agli algologi e alle cure palliative.
Questa è l’unica eutanasia che è lecito ammettere: la scelta di una morte indolore, per scongiurare una morte “atroce”, una morte serena come quella del saggio che vi si prepara con pacatezza, una morte morale che Bacone definì praparatio animae.
Ci sono casi in cui il morente mostra con evidenza che è pronto all’incontro-clou della sua esistenza e che Dio lo sta chiamando a sè. Rispettiamo il paziente e non diciamo “no” a Dio.

10.3

Il paziente terminale ha il diritto di essere curato con la massima dovizia possibile di mezzi farmacologici e strumentali oltre che affettivi e psicologici. E’ il modo migliore per dare più giorni alla vita ma anche più vita a quegli ultimi giorni.
L’assistenza psicologica prevede una certa didattica in una sana cultura della morte, naturalmente solo se il soggetto crede nella trascendenza. Che la vita mutatur non tollitur lo sappiamo per fede. “La vita è un diverso modo di vivere per l’altra vita” rifletteva Agostino. La religione non promette l’immortalità ma una sorta di amortalità. In caso contrario non ci sono parole per attutire la caduta nel baratro materialistico del nulla.
“Cultura della morte” significa morire in pace, morire vivendo (71). Significa rendersi conto che siamo tutti già morti una volta quando perdemmo la vita fetale. Stavamo tanto bene in quell’utero eppure qualcosa ci disse “esci, muori, ti aspetta un’altra vita fuori di qui”. Negli ultimi giorni di vita terrena il copione ripropone la stessa battuta. Di nuovo una morte coincide con una nascita. Non per niente i Santi vengono festeggiati nel giorno in cui muoiono, che viene chiamato “dies natalis”.

10.3.a

Qualche p., tutto sommato, desidera morire. Il morente, se non soffre, non chiede di morire. Tiengo rivela che in quarant’anni di professione non si è sentito chiedere la morte neanche una volta (7).
In verità nessuno vuole morire. Ogni essere umano, nel pieno delle sue facoltà mentali, ha, della morte, una paura assoluta e ancestrale. Al punto di esorcizzarla col non pensarci mai o con il negarla. Si dice che della morte si parla solo in terza persona come se la morte riguardasse solo gli altri.
Molti depressi dicono di voler morire, ma poi, al primo malessere, chiamano subito il medico. Perciò è difficile scoprire che ci sia qualcosa di “naturale” nel desiderio di morte o addirittura nella “richiesta” di morte.
Tuttavia può accadere che un individuo, in un determinato momento della sua esistenza, appesantito da esperienze negative, da sofferenze fisiche e morali, da perdita di incentivi e di motivazioni, senta una profonda stanchezza di vivere. Certo non penserà al suicidio, ma proverà una specie di disponibilità ad accettare la morte, a non temerla più, a lasciarsi andare in un giving-up abbastanza sereno.
Ognuno di noi ricorda parenti e pazienti che si sono spenti in pace, in lenta consunzione, morendo non si sa di che, qualunque sia stata la diagnosi del certificato (in genere collasso cardiocircolatorio), poiché la loro annosa e plurima patologia non aveva presupposti letali. Non sono pochi gli anziani che si lasciano morire. Come è avvenuto per millenni, prima che la scienza scoprisse farmaci e tecnologie. Questa morte naturale è la vera morte “buona”, quella che Blumenbach chiamava la “senile eutanasia, morte senza malattia”.

10.3.b

Altre volte, in verità più spesso, la morte immanente ed imminente è vissuta con paura, anche con terrore, specie quando gli anni di vita non sono tanti.
Secondo la Kübler-Ross (61) il processo della morte presenta cinque fasi, dal momento della diagnosi-sentenza a quello del decesso
1 – Negazione, rifiuto, isolamento. “Non è vero, non può essere, ripetiamo le analisi”. Il p. rifiuta la morte ma ne parla con apparente distacco, come se tentasse di esorcizzarla e tenerla lontana. Poi si chiude e sembra entrare in uno stato di coscienza crepuscolare.
2 – Collera, risentimento, invidia. “Perché a me e non a x?!”. La collera diventa uno stile di vita: il p. è irascibile, aggressivo, ostile.
3 – Compromessi. Con Dio: “mi fai morire, almeno concedimi…”. Con i medici: “lasciatemi vivere almeno sei mesi, devo sposare una figlia, finire un lavoro…” Con i familiari: “statemi vicini, almeno adesso”. Con se stesso: “devo resistere: ho ancora tanto da fare”.
4 – Depressione: per ciò che già si è perso (è pieno di dolori, indebolito, dimagrito) e per ciò che sta per perdere (gli oggetti del proprio amore, la vita stessa).
5 – Accettazione. C’è solo bisogno di pace. Un vuoto di sentimenti. Non più voglia di parlare nè di ascoltare. Un uomo moribondo ha bisogno di morire come un uomo assonnato ha bisogno di addormentarsi. C’è un tempo per vivere, ma c’è anche un tempo per morire.
Aiutare il morente consiste (72) nel sintonizzarsi con i suoi variabili stati d’animo ed aiutarlo senza troppo zelo: confortare è condividere; condividere è buona volontà di esserci senza dover necessariamente fare qualcosa. L’aiuto al morente è l’opposto della maggior parte degli aiuti: in genere aiutiamo il prossimo ad impegnarsi nella vita, con il morente dobbiamo aiutarlo a disimpegnarsi dalla vita.

10.4

Le cure palliative, capaci di attenuare o sopprimere la sofferenza e permettere un passaggio più dolce dalla vita alla morte, sono l’alternativa più saggia all’accanimento terapeutico.
L’attributo “palliativo” ha, tradizionalmente, un significato limitativo ed una connotazione negativa. Indica trattamenti capaci soltanto di controllare inutili sofferenze. Ma nella rivalutazione attuata dalla cultura anglosassone la palliazione è più vicina ad una visione filosofica della medicina che non ad una sorta di “scienza della sconfitta medica”. Infatti dimostra come e quanto ci sia da fare “quando non c’è più niente da fare”.
Un pioniere della medicina palliativa, Mount (81), la definisce “l’attenzione al dettaglio: l’attenzione all’unità psicofisica, emozionale, spirituale del paziente; l’attenzione a ciò che rimane della sua vita arricchendo ogni suo istante di significato e di senso; l’attenzione a dare presenze e restaurare rapporti umani a pazienti e familiari; l’attenzione al sintomo più che alla sua causa primaria”.
Per Di Mola (37) la palliazione recupera il senso profondo della medicina come scienza ed “arte” per la salute psicofisica. Andrà contro l’onnipotenza della scienza che vorrebbe controllare e dominare l’uomo in tutte le sue manifestazioni, dalla nascita alla morte, ma garantisce una morte veramente “dignitosa”, forse più vicina alla morte dell’eroe o a quella del martire (che in genere soffrono), che non a quella del “ribelle suicida” che, invocando l’eutanasia, rifiuta il doloroso “lavoro di vivere”.

10.5

Si definisce placebo “una terapia deliberatamente somministrata per il suo effetto aspecifico e psicologico, oppure per il suo effetto specifico ma senza che abbia un’azione specifica nei confronti della condizione trattata. L’effetto placebo è l’effetto psicologico prodotto dal placebo” (93).
Un effetto placebo esiste in ogni tipo di trattamento. Come analgesico è efficace nel 36% dei casi. Alcuni depressi si dichiarano migliorati già nelle prime giornate di cura quando è noto che gli antidepressivi agiscono solo dopo 12-15 giorni.
L’effetto placebo è maggiore nei single, negli ansiosi, nei soggetti con atteggiamento favorevole verso i farmaci e con grande fiducia nel medico, quando è somministrato per iniezione, quando le aspettative del p. sono elevate.
Il placebo ha una sua farmacologia, simile a quella della sostanze attive. L’effetto cresce aumentando le dosi, permane anche dopo la sospensione, talvolta provoca crisi di astinenza quando lo si interrompe, può interagire con altri farmaci. Ha anche effetti collaterali: non di rado provoca cefalea, depressione, tensione, disturbi del sonno; in tali casi si parla di nocebo.
L’effetto placebo ha bisogno di riti e cerimoniali che costituiscono la liturgia terapeutica (83): fiducia nel medico, buon rapporto tra “colui che sa” e “colui che soffre e non sa”, una sorta di “sacralità” nei riti e nei luoghi della visita, nel sostegno rassicurativo, nella formula assolutoria di una prognosi fausta espressa con sicurezza.
L’effetto placebo è un “certificato di garanzia” della MP: non è solo suggestione e, anche se lo fosse, sia pure in parte, sarebbe sempre la testimonianza del coinvolgimento somatico in conseguenza di uno stimolo emozionale.
Recenti studi di biochimica del SNC e di PNEI hanno dimostrato la presenza nell’organismo di una complessa serie di sostanze fisiologiche, prevalentemente di natura polipeptidica, ad azione modulatrice e di controllo su emozioni, comportamento e funzioni somatiche. L’effetto placebo si spiega come un intervento aspecifico capace di attivare un sistema endogeno specifico che è programmato per una difesa naturale dell’organismo83.
Si parla di un “guaritore interno” (67): “c’è un dialogo costante tra la mente e il sistema immunitario; pensieri e sentimenti hanno ripercussioni biochimiche potenti e spettacolari su salute e malattia” Più di quanto possano i farmaci.
Se tale ipotesi sarà confermata dalle future ricerche, crolleranno le dicotomie tra medicina allopatica ed omeopatica, tra medicina scientifica e “altre” (83), e la MP si confermerà l’unica chiave di lettura possibile dell’intera fisiopatologia umana.
Gli interventi placebo in MP sono pochi perché l’utenza si è acculturata con la divulgazione scientifica dei mass-media e non è più tanto recettiva alle “cartine di MP” (mollica di pane, cioè farina) con cui il famoso clinico Condorelli guariva un’infinità di ipocondriaci, o alle endovenose di calcio presentate come ultimo ritrovato scientifico che ha effetto se il p. ha una sensazione diffusa di calore (basta iniettare non troppo lentamente).

10.6

Last but not least, l’aspetto bioetico della MP comprende il costo del malato psicosomatico.
Questi malati sono tanti, troppi. Affollano ambulatori e ospedali. Pretendono cure che cominciano e smettono subito (e quindi sprecano). Pretendono (e ottengono) analisi a non finire e ricoveri e persino interventi chirurgici: tutti inutili e costosi. Costano in farmaci, ricerche diagnostiche, degenze, giornate di lavoro perdute, stress coinvolgenti i familiari. Impossibile quantizzare la spesa pubblica che involontariamente, inconsapevolmente, incolpevolmente procurano; ma di certo si tratta di una spesa enorme.
Il Servizio Sanitario Nazionale avrebbe tutto da guadagnare a promuovere corsi di formazione psicologica per medici di base affinché questi si impadronissero delle tecniche di problem solving e di counseling sufficienti a desomatizzare certe situazioni ed a contenere la “medicalizzazione” di problemi esistenziali.