9. Psicosomatica e Riabilitazione

Consensus | Psicosomatica e Riabilitazione

9.1
Per riabilitazione in psicosomatica si intende una serie di situazioni in cui la psicologia del rapporto medico-paziente è di grande utilità. Tali situazioni sono la patomimia dell’ipocondriaco, la nevrotizzazione di una malattia clinicamente guarita, il mutamento destabilizzante dello stile di vita dopo un infarto o una diagnosi di sieropositività HIV o di cancro.

9.2
Se ammalarsi è triste, talvolta guarire è peggio.
Il ruolo di malato comporta dei vantaggi secondari (63) a cui è perlomeno scomodo rinunciare. Per il p. ipocondriaco che tiranneggia la famiglia, guarire significherebbe una perdita di potere. Per l’anziano già emarginato, un ulteriore isolamento. Per l’isterico la definitiva uscita di scena. Per l’anoressica e la sua famiglia, lo sconvolgimento di un’architettura costruita con paziente e sofferta tenacia. Per il candidato alla psicosi, il crollo di una difesa (97). Per il p. che si rifugia nella nevrosi, come nel medio evo ci si rifugiava in convento, la caduta libera nel terrore dell’esistenza.

9.3
Alcuni p., per fattori psicosociali, prolungano l’invalidità oltre la guarigione fisiologica malgrado il medico li ritenga guariti o quasi. Lipowski (66) parla di invalidismo psicologico, Pilowski (85) di abnormal illness behaviour (comportamento abnorme nei confronti della malattia). Si è anche parlato di nevrotizzazione della malattia (3).
Il genitore che ha superato una cardiopatia tiene tutti sulla corda toccandosi il petto appena contraddetto. Il grande atleta sul viale del tramonto salvaguarda la sua fama (e il suo guadagno) ritardando il ritorno alle gare per un dolore che non ha più ragione di esistere (nevrosi reumatica residua). L’infortunato in attesa di risarcimento accusa un’ingiustificata intensa cefalea che talvolta poi rimane anche ad indennizzo ottenuto. Qualche p. riscopre piacevolmente l’affetto dei familiari e degli amici quando li vede tutti alternarsi al suo letto in occasione di una maledetta-benedetta malattia.

9.4

E’ fin troppo evidente il valore clinico, sociale, economico di un intervento psicoterapico in tutti questi casi (9.2 e 9.3) per la salute mentale del p. (in primis), per la pace di intere famiglie, e persino per il risparmio delle strutture pubbliche a livello di giornate di lavoro perdute e di spese assistenziali sprecate.
Tale intervento va gestito con molta delicatezza. Chiamare in causa uno psichiatra provocherebbe enormi resistenze sia per il p. che si sentirebbe tradito, scoperto, spiazzato, rischiando altre ed imprevedibili reazioni, sia per i suoi familiari che, già stanchi di quel malato “difficile”, si ribellerebbero a considerarlo addirittura malato di mente.
Tocca al medico stabilire un primo contatto chiarificatore cercando di far capire che ci sono altri modi, e meno sofferti cioè più convenienti, per ottenere gli stessi vantaggi. Si tratta di studiare nuove strategie relazionali che non sfruttino il pietismo ma che garantiscano un aumento di collaborazione e di comunicazione con i familiari: <<Forse è meglio farsi aiutare da “un esperto di queste cose”, p.es. uno psicologo, uno che ha studiato per diventare un “professionista del consiglio”>>.

9.5

Un infarto, subìto in pieno benessere dopo una vita passata in perfetta salute, provoca uno sconvolgimento esistenziale che impone cambi di abitudini e nuovi progetti di vita.
Superare l’infarto è uno shock talvolta più pesante dell’infarto stesso. Michelazzi (78) ha descritto una “nevrosi post-infartuale”. Campailla (33) la chiama “sindrome psicocoronarica”.
Le reazioni sono spesso irrazionali: dal rifiuto alla rassegnazione (Musatti dice che l’uomo adulto non esiste: ce ne accorgiamo nei momenti di crisi). C’è l’infartuato che sfida il destino e riprende fumo e tennis, e c’è quello che non si china più neanche per raccogliere un fazzoletto come fosse un cadavere vivente. Appare utile la formula “from bed to job” (dal letto al lavoro) e cioè riprendere al più presto l’attività sia pure con qualche ragionevole limitazione per togliere spazio alla rielaborazione intrapsichica del vissuto di malattia.
Si cominciò a parlare di psicoriabilitazione cardiaca nel 1976 (35). Nello stesso periodo, in Italia, Selvini riferiva in vari congressi sui suoi pionieristici centri di rieducazione degli infartuati con sedute quindicinali di gruppo in ospedale. La psicoterapia di gruppo per infartuati ( e loro mogli) è oggi piuttosto diffusa, talvolta associata a terapie di appoggio e di rilassamento (23), anche con il follow-up telefonico (telefonata quotidiana, anche da parte di un’infermiera) per tre mesi dalla dimissione dall’unità coronarica, per seguire progressi (o meno) nel reinserimento del p. nella vita sociale, lavorativa, sessuale, ecc.
Superata la fase acuta, il p. ha bisogno, a lungo, di un supporto psicoterapico. Anche questo è psicosomatica.
Infatti non è pensabile che questo intervento sia affidato ad uno psichiatra, sia pure su suggerimento del medico di base. Ad una famiglia sconvolta da un infarto non si può fare la sorpresa di consigliare uno psichiatra. Il medico dovrà provvedere da solo finché possibile e, solo in un secondo tempo, potrà farsi aiutare da uno psicologo, più o meno come si gioverebbe di un’infermiera per eventuali flebo e di un fisioterapista per eventuali massaggi ad una muscolatura indebolita dall’immobilità.

9.6

Alla pari dell’infarto, altri eventi patologici producono una reazione difficile da gestire sia dal medico, sia dai familiari, oltre che, s’intende, dal p. stesso: una diagnosi di tumore o cirrosi, cardiopatia dilatativa, leucemia, insufficienza renale, ecc.
Ne deriva una depressione ai livelli di disperazione. Qualcuno si adatta alla meno peggio, altri cominciano a nutrire idee di suicidio (pochi lo fanno, i più si salvano per la fede). Si sviluppa un quadro clinico di palese pertinenza psichiatrica, ma p. e familiari sono poco propensi a consultare uno psichiatra.
Questi casi sono di competenza della MP.
L’adattamento psicologico alla malattia cronica può assumere forme svariate (42): accettazione consapevole, negazione dei fatti oggettivi della malattia, pattern regressivo caratterizzato da esagerata dipendenza, ecc.
Nella stagione teatrale 81-82 girò con successo, in Italia, l’opera di Tom Kempinski “Due voci per un a solo”; due soli personaggi sulla scena: uno psicoanalista (Sergio Graziani) e una signora (Rossella Falk) su sedia a rotelle. Era una violinista che a 35 anni aveva saputo di essere affetta da sclerosi a placche. Sentì il bisogno di uno psicoterapeuta per ridimensionare la sua esistenza.

9.7

Nei programmi di riabilitazione della MP rientra la gestione del p. affetto da AIDS. L’effetto di tale diagnosi è talmente destabilizzante che la nostra legislazione ha reso obbligatoria la presenza dello psicologo all’atto della consegna al soggetto (ed esclusivamente nelle sue mani) del referto di HIV (positivo o negativo che sia). La letteratura psicosomatologica registra molti studi sull’argomento.
La MP ha due importanti ruoli verso il malato di AIDS: uno è quello di favorire da parte del medico un atteggiamento e una disponibilità verso le dimensioni psicologiche della malattia, sapendo rispondere alle caratteristiche e ai bisogni profondamente diversi che hanno i vari tipi di malato (l’omosessuale, il tossicodipendente, l’emofilico, l’eterosessuale), in genere con assetti psichici differenti e colpiti dalla malattia attraverso percorsi e per ragioni differenti; un altro quello di studiare e approfondire il possibile rapporto tra fattori psichici e sistema immunitario, che potrebbero avere qualche ruolo nel decorso della malattia, o potenziare la risposta alle terapie mediche. In particolare, utile potrebbe essere favorire un buon supporto sociale, aiutare a sostenere il sonno e il ritmo attività-riposo, controbilanciare demoralizzazione e depressione, sia attraverso psicoterapie di gruppo che interventi psicofarmacologici.

9.8

Un capitolo a sé merita l’oncologia. Il problema “MP e cancro” va molto al di là della riabilitazione del p. canceroso o almeno della sua assistenza psicologica (27).
I tumori non sono certo malattie “psicosomatiche”, ma i fattori psichici ed emozionali sembrano avere, almeno in un certo numero di casi, un loro peso. Il possibile ruolo dei fattori psichici nelle malattie tumorali, sebbene ignorato da molti, è sostenuto da evidenze diverse. Studi sperimentali effettuati in laboratorio hanno documentato che stimoli stressanti possono favorire la comparsa di tumori spontanei, ridurre la difesa dell’organismo verso tumori innestati, accelerare la progressione del tumore primitivo e della metastatizzazione.
Sono ormai noti anche alcuni dei possibili meccanismi attraverso cui lo stress può favorire il cancro, da meccanismi neuroendocrini al coinvolgimento dell’immunità cellulo-mediata e dei linfociti NK. Le connessioni tra sistema nervoso e sistema immunitario sono un dato di fatto come decine di studi sulla neuroimmunomodulazione dimostrano.
In campo umano vari studi hanno rilevato l’importanza di gravi eventi di perdita affettiva, quali possibili precursori della malattia, dai 3 ai 10 anni precedenti. Forse più dubbia, o quantomeno più difficile da definire, l’esistenza di una “personalità a rischio”.
Oltre che nella risposta e nell’adattamento alla malattia, alle procedure diagnostiche e alle terapie, i fattori psichici sembrano rivestire un ruolo anche nel decorso e sulla sopravvivenza. Alcuni studi hanno riscontrato possibili diverse caratteristiche psicologiche di chi “reagisce bene” (in genere, rispondendo con combattività, si ha una maggiore sopravvivenza) e chi reagisce “male” (in genere, abbandonandosi con sfiducia e remissività, si soccombe prima alla malattia).
La psico-oncologia sta suggerendo al medico e allo psicologo varie risorse, interventi psicoeducazionali, ruolo delle associazioni di malati e dei gruppi di auto-aiuto, psicoterapie individuali, di gruppo, interventi psicoterapici specifici come la Terapia Psicologica Adiuvante, e gli interventi psicofarmacologici per l’ansia e la depressione che colpiscono fino al 50% dei pazienti.